Renzi ha un piano per far ripartire l’economia

Un po' di spiegazioni per chi l'ha letto sui giornali e vuole orientarsi tra Maastricht, rapporto deficit-PIL, Fiscal Compact e Cassa depositi e prestiti

(ANSA/GIUSEPPE LAMI)
(ANSA/GIUSEPPE LAMI)

Complice l’estate e la penuria di notizie, tra ieri e oggi quasi tutti i quotidiani italiani hanno dato ampio spazio alla proposta economica del segretario del PD, Matteo Renzi, contenuta nel suo nuovo libro “Avanti” che uscirà mercoledì 12 luglio. Renzi propone di alzare il deficit (cioè quanto lo Stato spende più di quanto incassa incassa) fino al 2,9 per cento del PIL, rinunciando così agli impegni presi con il resto dell’Unione per continuare a ridurlo rispetto all’attuale 2,1 per cento. Secondo Renzi, grazie al suo piano sarebbe possibile raccogliere in maniera indolore le risorse necessarie a un massiccio taglio delle tasse. Adottando il suo piano per cinque anni, sostiene, si rimetterebbe in moto la crescita economica al punto che lo Stato recupererebbe anche il gettito fiscale perduto.

Renzi introduce la sua proposta dicendo di voler “ritornare a Maastricht” e spiega:

«Per la mia generazione questa cittadina olandese dal nome difficilmente pronunciabile era sinonimo di austerità. Stare dentro i parametri di Maastricht sembrava un’impresa quasi impossibile, al punto che quando l’Italia raggiunse quel traguardo per molti fu festa grande. Oggi Maastricht – paradossalmente – ha cambiato significato. L’avvento scriteriato del Fiscal Compact nel 2012 fa del ritorno agli obiettivi di Maastricht (deficit al 3% per avere una crescita intorno al 2%) una sorta di manifesto progressista»

Renzi dice insomma che alle vecchie regole europee sul deficit – già considerate “sinonimo di austerità” – ne sono subentrate di nuove e più stringenti. Per ricominciare a crescere, quindi, è necessario tornare indietro. In particolare, secondo lui è necessario tornare «per cinque anni ai parametri di Maastricht con deficit al 2,9 per cento». Così facendo il governo potrà recuperare «una fraccata di miliardi», scrive, e senza tagliare le spese, una cosa che nessuno degli ultimi governi è riuscito a fare in maniera significativa. Con il denaro così ottenuto, continua Renzi, «La mia proposta è semplice: questo spazio fiscale va utilizzato tutto, e soltanto per la riduzione delle tasse, per continuare l’operazione strutturale iniziata nei mille giorni». E conclude: «Questa roba è davvero l’uovo di Colombo».

L’idea alla base del piano di Renzi è quindi tagliare le tasse e riempire i buchi di bilancio con il maggior gettito generato dall’aumento di crescita economica: tradotto, con le tasse più basse più soldi rimangono alle persone, che spenderanno di più e quindi faranno crescere l’economia, facendo aumentare le entrate fiscali e quindi compensando – se non addirittura superando – la spesa necessaria al taglio iniziale delle tasse. È la cosiddetta teoria della “supply side economy”, cioè “teoria dell’offerta”, secondo cui il miglior modo per stimolare la crescita economica consiste nel tagliare le tasse.

L’idea che a un taglio delle tasse corrisponda automaticamente crescita economica e aumento delle entrate è contestata da alcuni economisti. Gli economisti keynesiani, considerati in genere più di sinistra degli altri, sostengono che il modo migliore per stimolare l’economia sia stimolare la domanda, e quindi preferiscono gli investimenti pubblici. Bisogna dire però che l’Italia oggi è uno dei paesi con le tasse più alte del mondo, e con servizi di qualità imparagonabile (in negativo) ai pochi paesi con tasse più alte delle sue; e Renzi in passato si è detto d’accordo anche con gli economisti keynesiani, sostenendo che il denaro speso per gli investimenti pubblici non debba essere conteggiato nel deficit, promuovendo in sostanza entrambi gli approcci.

In ogni caso, per un paese molto indebitato come l’Italia, mantenere il deficit alto è un rischio. Se nei prossimi cinque anni ci trovassimo in una nuova recessione mentre il deficit è già intorno al 2,9 per cento del PIL, il governo del paese non avrebbe molta possibilità di manovra. Quando il PIL scende, come in una recessione, il rapporto deficit e PIL si alza automaticamente. In questo scenario l’Italia rischierebbe di trovarsi con un deficit al 4 o addirittura al 5 per cento. A quel punto dovrebbe riuscire a convincere i mercati finanziari che vale ancora la pena comprare titoli di Stato italiani – cioè prestarci soldi per far funzionare scuole e ospedali, pagare stipendi e pensioni, eccetera – nonostante con un deficit così alto il debito pubblico italiano rischi di non essere sostenibile; oppure dovrebbe tagliare il deficit nel pieno di una recessione, una manovra di austerità che deprimerebbe l’economia invece che sostenerla.

Anche senza immaginare uno scenario così grave, alzare il deficit rischia comunque di produrre un aumento del debito pubblico. I trattati europei, come il controverso Fiscal Compact, hanno proprio lo scopo di evitare che alcuni paesi europei si indebitino in modo eccessivo, contando poi sull’aiuto dei paesi più fiscalmente responsabili, e quindi impongono una serie di parametri piuttosto rigidi per regolare quanto uno Stato europeo può spendere. Per risolvere questo problema, Renzi propone «un’operazione sul patrimonio che la Cassa depositi e prestiti e il ministero dell’Economia e delle Finanze hanno già studiato, sebbene debba essere perfezionata». Renzi non specifica molto su questo piano, ma il fatto che nomini la Cassa depositi e prestiti ha spinto diversi commentatori a ipotizzare che Renzi voglia sfruttare un escamotage contabile di cui nel nostro paese si parla da anni, ma che non è mai stato del tutto realizzato.

La Cassa depositi e prestiti, infatti, è un ente pubblico (si occupa di gestire parte del risparmio postale degli italiani, di fare prestiti agli enti locali e di gestire partecipazioni pubbliche in alcune società) ma i suoi attivi e i suoi debiti, per una convenzione contabile europea, non sono conteggiati tra quelli della pubblica amministrazione. L’idea di Renzi sembrerebbe affidare alla Cassa depositi e prestiti parte del patrimonio immobiliare e altre proprietà dello Stato. La Cassa depositi e prestiti, a quel punto, si occuperebbe di vendere o valorizzare quel patrimonio, un’attività molto lunga e complessa, mentre il governo otterrebbe immediatamente il denaro necessario con cui ridurre il debito pubblico.