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  • Domenica 25 giugno 2017

Dove vengono seppelliti i migranti

Quelli che muoiono in mare ricevono semplicemente un tumulo di terra e un cartellino con un numero, per una futura improbabile identificazione

di Luca Misculin – @lmisculin

(ANSA/ GIORGIO NERI)
(ANSA/ GIORGIO NERI)

Dal 2014 al 2016 circa 12mila persone sono morte nel Mar Mediterraneo cercando di raggiungere i paesi europei. Buona parte di loro è semplicemente scomparsa: sono salpati dalle coste della Turchia, della Libia o dell’Egitto, e non sono mai arrivati. Di una piccola parte di loro, invece, vengono ritrovati i resti, che viaggiano sulle stesse navi di soccorso che portano i loro compagni di viaggio nei porti europei. Sbarcati a terra, vengono avviate le procedure per la sepoltura. In pochissimi vengono identificati sul momento: la maggior parte di loro ottiene un tumulo di terra e una lapide o un cartellino con un numero assegnato dalle autorità locali. BBC ha stimato che dal 2014 fino alla metà del 2016, circa 1.250 migranti senza nome hanno ricevuto una sepoltura in più di 70 cimiteri fra Turchia, Grecia e Italia.

Migranti: sepolte in cimitero Reggio C. 45 vittime naufragio Una sezione riservata ai migranti del cimitero di Reggio Calabria (ANSA/ GIORGIO NERI)

Come funziona
Per i corpi che arrivano in Italia – ha spiegato al Post Enzo Pilò, fondatore della ONG pugliese Babele, che segue gli sbarchi che avvengono nel porto di Taranto – tutto è a carico dello stato. I corpi vengono trasportati nella camera mortuaria di un ospedale vicino al porto di arrivo, dove viene esaminato solitamente da un medico generico; il magistrato constata ufficialmente la morte, e ciascun corpo viene trasferito al cimitero per la sepoltura.

Stabilire la fede religiosa di una persona su cui si hanno pochissime informazioni è complicato: di conseguenza, è difficile garantire una sepoltura o un funerale adeguato alla fede del morto. Per rimediare parzialmente a questo problema, diversi comuni siciliani tengono delle funzioni multi-religiose per le persone morte senza essere identificate, coinvolgendo le comunità religiose locali. È accaduto ad esempio il 28 maggio 2014 a Catania, quando furono seppelliti 17 corpi di persone arrivate da Eritrea, Siria e Nigeria (tre paesi in cui coesistono Islam e cristianesimo). A volte i costi dei funerali vengono sostenuti da enti come le opere pie, un particolare tipo di associazione cattolica senza scopo di lucro.

Dato che l’Italia ha diversi porti in cui attraccano le navi dei migranti, non esiste un unico cimitero in cui vengono sepolti i corpi delle persone morte durante il tragitto. È quello che invece è capitato a Lesbo, in Grecia, la principale isola di transito per i migranti che partivano dalla Turchia quando ancora era attiva la “rotta balcanica” verso l’Europa. Nel febbraio del 2016 la sezione riservata ai migranti del cimitero di San Panteleone era diventata troppo piena, e le autorità di Lesbo dovettero sistemare i morti in un apposito terreno di un villaggio dell’isola.

bbc lesbo (Un video girato da BBC su alcuni migranti sepolti a Lesbo)

Il caso più simile al cimitero di Lesbo in Italia è quello di Lampedusa, la piccola isola più vicina alle cose tunisine che a quelle italiane che da anni registra un flusso importante di migranti per molti mesi all’anno. Già nel 2012, la sindaca Giusi Nicolini si era lamentata in una lettera pubblicata dal blog di Beppe Grillo di non avere più loculi disponibili per i migranti nel cimitero locale. Negli ultimi anni però il cimitero è stato espanso, e di conseguenza si è allargata anche la cosiddetta “zona dei senza nome”, dove sono sepolti i migranti morti in mare. Molti sono identificati solo con una sigla (B/2008, C/2009) oppure un numero.

IL CIMITERO DEI MIGRANTI, NUMERI ANZICHE' NOMI (ANSA / ETTORE FERRARI)

Anche in questo caso le persone identificate sono pochissime. A volte, il Comune si è sentito di corredare la tomba con una iscrizione. In una lapide posta nel gennaio del 2009 si legge:

Immigrato non identificato di sesso maschile
di circa 20 anni di etnia africana colorito nero,
rinvenuto in data 21 gennaio 2009
dalla Capitaneria di Porto di Lampedusa
a bordo di un gommone giunto nel porticciolo di Cala Pisana
la sua giovane vita si è spenta mentre affrontava il
viaggio della speranza in cerca di un futuro migliore

In generale in Italia la situazione cambia di città in città. A Taranto, uno dei porti dove negli anni è stato aperto uno hotspot e dove vengono spesso trasportate le navi con a bordo i migranti, i morti arrivati negli ultimi anni non sono stati tantissimi, meno di dieci (e sono seppelliti nell’unico cimitero della città). A Messina, un altro dei principali porti in cui avvengono gli sbarchi, due anni fa la prefettura chiese ai sindaci dei paesi della provincia di mettere a disposizione i propri cimiteri per i corpi dei migranti: a Forza d’Agrò, un paese di meno di mille abitanti, a un certo punto arrivarono 12 corpi che vennero seppelliti nel cimitero locale. Alla cerimonia di sepoltura erano presenti tutte le autorità del posto: il comandante dei carabinieri, il vicequestore, il comandante della polizia, e così via.

E dopo?
Oltre alle procedure di sepoltura, ciascuno stato dovrebbe conservare le informazioni utili alla futura identificazione dei corpi, come previsto dal diritto internazionale. In casi come questi, in cui non si conoscono nome e provenienza dei morti, significa basarsi soprattutto sui cosiddetti dati post-mortem: oggetti trovati sul corpo come telefoni e portafogli, testimonianze e campioni di tessuto su cui eseguire test del DNA.

Un rapporto sulle procedure italiane pubblicato nel settembre 2016 dall’università di York in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, un’ONG internazionale legata all’ONU, spiega che sul territorio italiano «gli identificatori primari come i campioni di tessuto sono solitamente prelevati da tutti i cadaveri». Il problema è che non esiste un archivio centrale dove sono conservati questi resti, cosa che rende molto complicato per una famiglia risalire a chi possieda materialmente i campioni. Solamente in Italia, campioni di questo genere possono essere in possesso dei RIS (il Reparto Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri), della polizia scientifica o dei dipartimenti di medicina legale delle università coinvolte. Di conseguenza, sottolinea il rapporto, «un’identificazione basata su questi dati avviene di rado».