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  • Mercoledì 21 giugno 2017

Il futuro incerto dei Democratici statunitensi

Nonostante i guai di Trump hanno perso in cinque collegi su cinque alle elezioni suppletive, e questo apre diverse questioni in vista del 2018 e del 2020

di Francesco Costa – @francescocosta

Due attivisti del Partito Democratico dopo la sconfitta di Jon Ossoff in Georgia. (AP Photo/David Goldman)
Due attivisti del Partito Democratico dopo la sconfitta di Jon Ossoff in Georgia. (AP Photo/David Goldman)

Nella grandissima parte delle democrazie occidentali, e quindi anche in quella statunitense, le elezioni cosiddette di metà mandato – che siano amministrative o legislative – tendono a penalizzare e logorare il partito al governo, per via di quei meccanismi fisiologici e comuni con cui cambia l’entusiasmo degli elettori verso chi è all’opposizione e verso chi governa: negli Stati Uniti le elezioni di metà mandato si terranno a novembre del 2018, ma il Partito Democratico sperava di ottenere le sue prime vittorie già in questi giorni, quando si votava per rimpiazzare cinque deputati Repubblicani che hanno lasciato i loro seggi perché scelti dal presidente Donald Trump per far parte del suo governo. Nonostante entusiasmi, sforzi, aspettative e grandi fondi investiti, però, i candidati Repubblicani hanno vinto in cinque seggi su cinque.

Non è un risultato dal quale trarre conclusioni definitive: si votava in cinque collegi solidamente Repubblicani da parecchi anni, dove l’anno prossimo i deputati uscenti sarebbero riusciti con facilità a conservare i loro seggi. Molti però pensavano che le elezioni del 20 giugno sarebbero state la prima occasione in cui gli elettori avrebbero potuto “mandare un segnale” contro Trump, e il Partito Democratico beneficiare della crescente impopolarità del presidente e della grande partecipazione al voto dei propri elettori arrabbiati. Una delle cinque elezioni suppletive, quella nel sesto collegio della Georgia, ha prodotto anche per questo motivo la campagna elettorale più costosa di sempre per un seggio della Camera, con 50 milioni di dollari investiti da partiti e militanti: quel risultato era diventato “un segnale” che in un senso o nell’altro avrebbe avuto conseguenze politiche su entrambi i partiti. Alla fine hanno vinto i Repubblicani anche lì: Karen Handel ha preso il 51,9 per cento, contro il 48,1 per cento di Jon Ossoff, candidato trentenne dei Democratici.

La sconfitta di Ossoff può essere spiegata con ragioni locali, non necessariamente indicatrici di tendenze nazionali: nel sesto collegio della Georgia i Repubblicani vincono dal 1979, e Donald Trump è impopolare ma non quanto in altre parti del paese. Per quello che era diventata la campagna elettorale nel corso di questi mesi, però, e per i significati generali e nazionali che aveva assunto, molti considerano la sconfitta di Ossoff esemplare di fenomeni e problemi che i Democratici dovrebbero prendere in seria considerazione: dimostra per esempio che la sola impopolarità di Trump non gli basterà per riottenere la maggioranza alla Camera e al Senato alle elezioni di metà mandato, e che gli elettori Repubblicani non hanno (ancora) perso entusiasmo e voglia di andare a votare, come di solito capita al partito che occupa la Casa Bianca.

Negli Stati Uniti ogni due anni si rinnovano tutti i seggi della Camera, oltre che un terzo di quelli del Senato: questo vuol dire che ogni partito nei prossimi mesi dovrà scegliere con le elezioni primarie chi candidare in ciascuno dei 435 collegi in cui è suddiviso il paese. La scelta dei candidati è affidata in ultima istanza agli elettori, ma i partiti hanno un ruolo importante nel trovare, selezionare, sostenere e finanziare i candidati più promettenti, oltre che nel costruire un più generale e coerente messaggio politico per l’intero partito: la sconfitta di Jon Ossoff in Georgia complica entrambe le cose.

Il Partito Democratico statunitense è ancora convalescente dopo le primarie e le elezioni presidenziali del 2016, diviso tra un’ala più radicale – che fa riferimento soprattutto ai senatori Bernie Sanders ed Elizabeth Warren – secondo cui alla vittoria di Trump bisogna rispondere con un messaggio altrettanto radicale, innovativo e anti-establishment, e una più moderata e vicina alla classe dirigente del partito che pensa che l’unico modo per vincere sia convincere almeno una parte delle persone che hanno votato per Trump nel 2016, e quindi evitare di trattarle come stupide o spaventarle con proposte troppo radicali. Nessuna delle due correnti è riuscita a imporsi sull’altra, fin qui, anche se la seconda sembra ancora la più forte: ha vinto le primarie del 2016 con Hillary Clinton, ha vinto la successiva elezione del nuovo presidente del partito (Tom Perez), ha vinto le recenti primarie per governatore della Virginia.

In Georgia, Ossoff aveva provato a tenere un piede in due scarpe: nella fase iniziale della sua campagna elettorale aveva scelto toni radicali e adottato lo slogan “Make Trump furious”, legando direttamente le sue sorti alla politica nazionale e attirando così attenzioni, sostegno e finanziamenti dai Democratici di tutti gli Stati Uniti, e ottenendo numeri molto incoraggianti nei sondaggi. Dopo il primo turno – nel quale aveva ottenuto il 48,1 per cento – Ossoff però ha cercato di proporsi come politico rassicurante per gli elettori Repubblicani più istruiti e moderati (ce ne sono diversi, in quel collegio): ha smesso di nominare Trump parlando soprattutto di temi locali, ha fatto proposte responsabili dal punto di vista del bilancio e si è concentrato sulla creazione di posti di lavoro.

Gli attivisti più radicali del partito sostengono che Ossoff abbia perso proprio perché nella seconda parte della campagna elettorale ha moderato molto le sue posizioni, mentre avrebbe dovuto continuare a puntare sull’opposizione a Trump senza temere di allontanare le persone che lo avevano votato alle presidenziali (la maggioranza, in quel collegio). I più moderati sostengono invece che il fatto che Ossoff abbia ottenuto al ballottaggio la stessa percentuale del primo turno – 48,1 – mostra proprio che non sia stato in grado di andare oltre gli elettori del Partito Democratico, e che quegli elettori da soli non bastano per vincere le elezioni.

Sono temi di cui si continuerà a discutere a lungo, e la prima vera “resa dei conti” arriverà proprio con le primarie per scegliere i candidati al Congresso per le elezioni di metà mandato del 2018. Ci sono altre cose che i Democratici possono imparare da queste elezioni in Georgia, analizzate ed esposte in queste ore da giornalisti e analisti politici:

– Gli spot contro gli avversari funzionano ancora
Un comitato politico indipendente ma vicino ai Repubblicani nell’ultima settimana aveva diffuso uno spot molto scorretto che metteva in relazione la sparatoria contro i deputati Repubblicani con «la sinistra squilibrata di Jon Ossoff». Dopo la diffusione di questo spot, di cui si è parlato molto in tutto il paese, Handel ha cominciato a recuperare nei sondaggi.

– I candidati contano, al di là del clima nazionale
Ossoff è un film-maker trentenne senza nessuna esperienza politica, cosa che lo ha esposto alle caricaturizzazioni degli avversari; e durante la campagna elettorale non ha mostrato particolari doti o qualità carismatiche (alcuni hanno detto che è stata «la campagna più esaltante per il candidato meno esaltante» a cui abbiano assistito). La sua avversaria, Karen Handel, ha fatto politica a livello locale per quindici anni: aveva tessuto rapporti più solidi nello stato ed era più difficile distorcere la sua immagine.

– I Democratici hanno comunque buone possibilità
Per quanto fosse possibile – e a un certo punto forse persino probabile – la vittoria di Ossoff in un collegio Repubblicano della Georgia sarebbe stata impensabile qualche anno fa: e il fatto che i Democratici siano stati competitivi in un collegio così difficile (o in quello della South Carolina in cui hanno perso per duemila voti) fa pensare che possano andare meglio in tanti altri collegi oggi occupati dai Repubblicani ma in condizioni più incerte di quelle della Georgia.

– La prossima campagna elettorale sarà costosissima
Anche per questo motivo, i collegi competitivi alle elezioni del 2018 potrebbero essere molti: i Democratici potrebbero decidere di investire risorse anche dove qualche anno fa non avrebbero avuto speranze – come in Georgia – e questo costringerà i Repubblicani a difendersi aumentando anche loro gli stanziamenti di fondi. Il risultato è che si va probabilmente verso la più costosa campagna elettorale di sempre per l’intera Camera, e peserà moltissimo l’entusiasmo degli elettori e la capacità dei partiti e dei candidati di mobilitarli.

– Nancy Pelosi è molto ma molto impopolare
Il più efficace messaggio dei Repubblicani della Georgia è stato quello che legava Ossoff a Nancy Pelosi, deputata Democratica di lunghissimo corso e capo della minoranza alla Camera. Secondo i sondaggi il 98 per cento degli elettori del collegio diceva di avere un’opinione precisa su Nancy Pelosi all’inizio della campagna elettorale, i pareri negativi erano 35 punti percentuali superiori ai pareri positivi. I Repubblicani avevano già usato con efficacia questa strategia comunicativa in passato e lo faranno ancora in futuro, visto che ha funzionato in Georgia. Pelosi è accusata dalla destra di essere il simbolo della sinistra californiana fuori dalla realtà e dell’inettitudine del Congresso che pensa solo a preservare il suo potere.

– Essere contro Trump non basterà
«Il nostro nome è più tossico di quello di Trump», ha detto il deputato dei Democratici Tim Ryan, che dopo le ultime elezioni aveva sfidato Nancy Pelosi per la leadership del partito alla Camera, perdendo. «Non possiamo semplicemente fare campagna contro Trump». Alle elezioni di metà mandato del 2018 i Democratici otterranno la maggioranza se strapperanno ai Repubblicani almeno 24 collegi: la campagna elettorale della Georgia dimostra che per quanti guai possano capitare a Trump – che dopo sei mesi non ha ancora ottenuto nessuna vera vittoria politica ed è addirittura indagato – questi da soli non basteranno a ottenere quelle vittorie locali.

Le elezioni di metà mandato, infine, saranno per i Democratici il prodromo delle elezioni primarie con cui sceglieranno chi candidare alla Casa Bianca nel 2020, salvo sorprese clamorose proprio contro il presidente uscente Donald Trump. Circolano già molti nomi e nessuno ha sugli altri un vantaggio in termini di visibilità e popolarità come quello che aveva Hillary Clinton nel 2016: anche per questo motivo molti si aspettano un’elezione primaria con moltissimi candidati, anche più di venti, un po’ come le ultime del partito Repubblicano. L’orientamento con cui gli elettori Democratici sceglieranno i loro candidati al Congresso nel 2018, e il loro eventuale successo o insuccesso, daranno una prima grossa indicazione sull’aria che tirerà nel 2020: se avranno più forza i candidati che non vengono dalla politica, come è stato per Trump tra i Repubblicani nel 2016, oppure i politici con posizioni più radicali, oppure quelli con posizioni più tradizionali; sempre che non arrivi qualcuno capace di essere considerato credibile in modo trasversale, anche da correnti con orientamenti diversi, e imporsi così sugli altri.