Le pubblicità su internet finiscono dappertutto, ed è un problema

I sistemi che le gestiscono per conto delle aziende non sanno garantire che non finiscano su siti che promuovono odio o contenuti discriminatori e offensivi

di Elizabeth Dwoskin e Craig Timberg – The Washington Post

John Ellis, presidente di Optics For Hire (Josh Reynolds — The Washington Post)
John Ellis, presidente di Optics For Hire (Josh Reynolds — The Washington Post)

Come proprietario di una piccola impresa nel progressista Massachusetts, John Ellis era naturalmente spinto a simpatizzare per l’appello nazionale rivolto agli inserzionisti a boicottare Breitbart News, il sito di informazione di estrema destra che ha stretti legami con il presidente statunitense Donald Trump. La cosa, però, ha portato Ellis a farsi domande su altri siti di destra, ancora più estremisti: chi ci metteva le pubblicità? Dopo qualche ricerca, internet gli ha dato una risposta inquietante: era lui. Su un sito di proprietà di Richard Spencer, uno dei leader dei nazionalisti bianchi americani, Ellis ha visto spuntare un annuncio della sua azienda ingegneristica, Optics for Hire, nonostante non avesse mai comprato consapevolmente quell’annuncio.

Ellis era incappato su una sfaccettatura poco conosciuta del mondo in grande espansione della pubblicità online. Le aziende che sfruttano le ultime tecnologie nel settore della pubblicità su internet – messe a disposizione da Google, Yahoo e da importanti società concorrenti – trovano sempre più spesso i loro annunci vicino a contenuti politicamente estremisti e offensivi. Il motivo è che i network pubblicitari offerti da Google, Yahoo e altre società possono mostrare gli annunci su una grande quantità di siti terzi, sulla base delle ricerche degli utenti e della loro cronologia. Nonostante questo meccanismo garantisca agli inserzionisti una possibilità senza precedenti di raggiungere clienti che rientrano in un profilo circoscritto, limita sensibilmente la loro capacità di controllare dove finiscono le loro pubblicità. «Nessuno ha idea di dove finiscano i propri annunci», ha detto Ellis. E in alcuni casi, ha aggiunto, i network pubblicitari «guadagnano sull’odio».

In un segno della loro crescente frustrazione, la scorsa settimana la società telefonica americana AT&T e quella di telecomunicazioni Verizon, insieme ad altre importanti aziende, si sono ritirate dal servizio di Google AdSense, in risposta alle notizie secondo cui alcuni annunci erano apparsi in siti di propaganda dello Stato Islamico e di altre organizzazioni violente.

La questione, però, è più ampia. Un’analisi del Washington Post condotta su decine di siti con contenuti estremisti e offensivi ha scoperto che che molti erano clienti di importanti network pubblicitari, che condividono con i gestori dei siti parte dei ricavi ottenuti dagli inserzionisti. L’analisi ha scoperto che questi network avevano inserito annunci di Allstate, IBM, DirectTV e altre conosciute aziende americane in siti con insulti razziali ed etnici, contenuti che negavano l’olocausto e commenti denigratori nei confronti di neri, ebrei, donne e gay. Alcuni di questi siti erano pieni di contenuti offensivi e carichi d’odio; in altri casi, invece, i contenuti di questo tipo erano confinati alla sezione dei commenti, in cui gli utenti andavano ben oltre il linguaggio usato dai redattori dei siti, le cui opinioni erano più vicine a tendenze politiche tradizionali.

Il mese scorso AdSense, per esempio, ha pubblicato alcuni annunci di diverse aziende vicino a commenti che contenevano insulti rivolti ai neri, e che invitavano a «impiccarli tutti». Altri annunci gestiti da Google per la catena americana Macy’s e la società di test genetici 23andMe sono apparsi sul sito My Posting Career, che si definisce come «zona per i privilegi bianchi», vicino a un avviso in cui si diceva che il sito avrebbe offerto un bonus per l’assunzione di qualsiasi persona imparentata ad Adolf Hitler. «Nessuna azienda vuole essere associata a siti del genere», ha detto Andy Kill, portavoce di 23andMe. «Questo è quello che può succedere quando ti affidi a un algoritmo», ha aggiunto Kill, «è frustrante». My Posting Career non ha risposto a una richiesta di commenti del Washington Post.

Il problema è emerso con l’evoluzione delle strategie di pubblicità online. Nonostante a volte gli inserzionisti decidano di pubblicare i loro annunci su siti specifici o di evitare quelli che non sono di loro gradimento, oggi una quota crescente dei bilanci pubblicitari viene destinata a quelli che il settore definisce acquisti “programmatici”. Questi annunci sono mirati alle persone con un profilo demografico o un profilo clienti ricettivo a un messaggio di marketing, indipendentemente dalle loro ricerche su internet. Degli algoritmi decidono dove piazzare gli annunci, sulla base delle ricerche passate degli utenti, in una serie molto eterogenea di siti.

Le società tecnologiche dietro ai network pubblicitari hanno lentamente iniziato a occuparsi della questione, sostenendo però che non sarà facile da risolvere. Queste società dicono che i loro algoritmi faticano a distinguere i contenuti realmente offensivi da quelli che non lo sono se inseriti nel contesto. Per un computer, per esempio, può essere difficile determinare la differenza nell’uso di un insulto razzista su un sito di suprematisti bianchi rispetto a uno che si occupa di storia. Per molto tempo, inoltre, le società tecnologiche sono state restie a mettersi nella posizione di essere arbitri del linguaggio, vista la soggettività della questione e i rischi legali legati al decidere quali contenuti meritino di essere letti o meno. È un problema che i giganti tecnologici stanno incontrando anche in altri campi, con la proliferazione di siti di notizie false e altamente politicizzate che diffondono disinformazione sui social network.

Lunedì 20 marzo, dopo alcune domande del Washington Post e le richieste di inserzionisti contattati dal giornale, Google si è scusata con gli inserzionisti, annunciando che avrebbe condotto «un ampio riesame» delle sue politiche pubblicitarie con l’obiettivo di assumere una posizione più dura contro i «contenuti carichi d’odio, offensivi e dispregiativi». Google ha aggiunto che commenti di questo tipo violano le sue politiche riguardo all’incitamento all’odio, senza però specificare se aveva adottato delle misure contro i siti in questione. La società ha detto di svolgere controlli su migliaia di siti ogni giorno per individuare le violazioni e di avere cacciato da AdSense nel 2016 oltre 100mila editori, tra cui molti editori di siti con un solo autore.

Yahoo, che ha bloccato uno dei siti indicati dal Washington Post, ha detto di condannare i contenuti razzisti o che incitano in altro modo all’odio, aggiungendo che «tra i miliardi di annunci erogati quotidianamente ci sono dei rari casi in cui le piattaforme pubblicitarie automatiche ne erogano alcuni dove non dovrebbero» (a volte il Washington Post usa network simili per inserire annunci che promuovono le offerte del giornale e ottiene ricavi pubblicando annunci venduti attraverso i network pubblicitari).

Molte delle aziende contattate per questo articolo – tra cui IBM, bareMinerals, Macy’s, Everquote e AllState – si sono dette sorprese e costernate dal fatto che i loro annunci fossero apparsi vicino a contenuti offensivi. In molti casi hanno detto di aver chiesto che i network pubblicitari inserissero quelle pagine in “liste nere”, una cosa semplice da fare per singoli siti ma non per intere categorie. Di solito i filtri automatici non rilevano alcune formulazioni offensive, e le società tecnologiche generalmente non hanno tra il loro personale l’enorme numero di persone necessarie per monitorare attentamente i contenuti di miliardi di pagine web.

Alcuni inserzionisti hanno espresso la loro frustrazione anche per il fatto che i network pubblicitari non fossero riusciti a far in modo che i messaggi di marketing non apparissero vicino a commenti dei lettori che potrebbero disturbare i clienti, anche su siti che non promuovono direttamente contenuti estremisti. AdSense, per esempio, ha mostrato un annuncio dell’azienda di cosmetici bareMinerals nella sezione dei commenti di Weaselzippers.us, un aggregatore di notizie di destra. Un utente del sito ha usato un termine offensivo per indicare i gay, dicendo che dovrebbero «riversare in una pozza di sangue». Quando il Washington Post le ha inviato per email l’immagine della pagina, la portavoce dell’azienda Joanne Chiu Sulit ha detto di essere «sconvolta dal fatto che l’azienda fosse su quel sito». Weaselzippers.us non ha risposto a un’email inviata dal Washington Post.

In un’epoca di crescente polarizzazione politica, l’inserimento degli annunci pubblicitari su internet è diventata una questione tesa. Nell’ultimo anno il numero di siti di destra che incitano all’odio e di quelli che diffondono notizie sensazionaliste o bufale è raddoppiato, secondo DoubleVerify, una società che tra le altre cose si occupa di revisione contabile. Con così tanti siti di news per gli inserzionisti è difficile evitare che i loro annunci non finiscano in posti sgraditi. «È come giocare ad “Acchiappa la talpa”», ha detto Wayne Gattinella, CEO di DoubleVerify, «puoi segnalare le parole chiave, usare un processo decisionale algoritmico per minimizzare il fenomeno, ma non c’è modo di filtrare la scelta delle parole in tempo reale».

Generalmente gli inserzionisti non hanno molte scelte oltre a quella di affidarsi a network pubblicitari. Quelle importanti hanno politiche che vietano di inserire gli annunci su siti con linguaggi discriminatori o che incitino all’odio; il Washington Post, però, ha trovato decine di apparenti violazioni. Molti dei siti nei quali il giornale ha trovato delle violazioni sono considerati siti d’odio da Southern Poverty Law Center, un gruppo di pressione che tiene traccia dell’incitamento all’odio. «I network pubblicitari hanno regole che però non applicano», ha detto Jillian York, membro dell’Electronic Freedom Foundation, che gestisce Online Censorship, un programma che spinge le società tecnologiche a chiarire i motivi per i quali rimuovono i contenuti.

Il mese scorso un annuncio della compagnia di assicurazioni Allstate è apparso su Alternative-Right.BlogSpot.com, nella cui sezione dei commenti venivano lodati «Hitler e i suoi Nazionalsocialisti come grandi precursori». Allstate ha detto di aver provato a evitare siti del genere ricorrendo a dei filtri. «Allstate non pubblica annunci consapevolmente su mezzi d’informazione che incitano all’odio e contengono un linguaggio minaccioso, discriminatorio od offensivo», ha detto la portavoce della società Laura Strykowski. Degli annunci di Everquote e DirectTV sono apparsi sul sito di Spencer, RadixJournal.com, vicino a commenti che criticavano la chiesa cattolica per aver promosso la mescolanza etnica e aver riempito paesi cristiani di «selvaggi del peggior tipo». DirectTV, un’azienda televisiva americana, non ha voluto commentare, mentre Everquote, un sito che offre un servizio di confronto di prezzi di assicurazioni auto, ha detto che nonostante usi network pubblicitari «richiediamo specificatamente che i nostri annunci non vengano pubblicati su siti che contengono o sono legati a, tra le altre cose, violenza, sesso, razzismo, sessismo, pornografia, temi illegali o potenzialmente illegali, pubblicità negativa o qualsiasi altro tema particolarmente sensibile». Annunci di Macy’s, Amazon e addirittura Planned Parenthood – un’organizzazione americana di cliniche non profit che forniscono molti servizi sanitari alle donne, tra cui anche le interruzioni di gravidanza – sono apparsi sul sito di provocazioni razziali My Posting Career. Degli annunci del negozio online di Amazon sono apparsi su un sito che conteneva un articolo intitolato «Sì, sono un nazista», che ha una sezione commenti piena di volgarità e insulti razziali. Amazon – che gestisce a sua volta un network pubblicitario e il cui CEO Jeff Bezos è proprietario del Washington Post – ha rifiutato di commentare.

Da tempo le società tecnologiche della Silicon Valley si oppongono alle richieste di controlli più aggressivi sulle loro piattaforme, sostenendo che un internet libero e aperto sia il fondamento del web. Con l’eccezione della pedopornografia, il Congresso americano ha condiviso per lo più la visione della Silicon Valley, lasciando alle società tecnologiche ampio margine di azione dal punto di vista legale per monitorare, o non farlo, i contenuti che compaiono sui siti e le piattaforme sotto la loro gestione.

Adesso, però, gli inserzionisti chiedono un cambiamento. «Le società tecnologiche stanno faticando ad adattarsi a una realtà in cui gli stessi strumenti che hanno permesso loro di collegare il mondo vengono ora usati per dividerlo» ha detto l’imprenditore e venture capitalist Noah Lichtenstein. «È questa la crisi della nostra epoca: come si raggiunge un equilibrio tra il desiderio di avere un web aperto e collegato e la crescente ondata di odio istituzionalizzato e la tutela delle persone sotto attacco?».

Non è ancora chiaro quanto efficaci saranno le iniziative per togliere la pubblicità da questi siti. Secondo Spencer prendere di mira Radix Journal e siti simili è scorretto nei confronti degli inserzionisti che hanno un controllo minimo sulla destinazione dei loro annunci. Se poi l’obiettivo è eliminare la pubblicità dai siti estremisti, Spencer prevede che gli sforzi si rivelerebbero poco efficaci dal momento che i ricavi ottenuti dagli annunci su internet sono molto scarsi e arrivano al massimo a qualche migliaia di euro l’anno. «Se anche mi togliessero tutte queste cose non ci sarebbero conseguenze sulla mia vita», ha detto Spencer. Il Washington Post non ha ricevuto risposte alle email inviate ai contatti indicati sul sito Alternative-Right.blogspot.com, e anche Breitbart News non ha risposto alle email in cui il giornale chiedeva commenti sul boicottaggio pubblicitario contro il sito.

Disqus, una start-up che gestisce la sezione dei commenti di quattro milioni di siti tra cui quelle di Breitbart News, Radix Journal e Occidental Dissent (ma anche quella del Post), vende pubblicità che compare vicino ai commenti. La società sta cercando di occuparsi del problema dei contenuti violenti, ha detto il CEO Daniel Ha, aggiungendo che Disqus ha ricevuto moltissimi reclami sull’incitamento all’odio da parte di utenti, inserzionisti e dipendenti. «I contenuti generati dagli utenti sono sempre stati estremamente caotici, e questo è uno dei motivi per i quali internet è un posto fantastico: perché si possono condividere idee impopolari», ha detto Ha, «penso però che nell’ultimo anno si sia visto come esista una responsabilità maggiore per il modo in qui questo influenza la società».

Le regole di Disqus vietano «la discriminazione estrema» nei commenti, che vengono valutati da un gruppo di lavoro composto da dieci recensori. Secondo Ha il confine tra «le molestie mirate che sembrano violente» e una battuta scurrile non è sempre evidente. In un post su un blog il mese scorso la società ha annunciato un nuovo strumento che permette agli utenti di segnalare i commenti offensivi; per la maggior parte però il software non è stato ancora collaudato. Ha ha detto di aver bloccato tre dei siti estremisti segnalati dal Washington Post dopo essere stato contattato dal giornale. Uno di questi, il neoconfederalista Occidental Dissent, ha sfruttato la decisione di Disqus per chiedere pubblicamente altre donazioni, guadagnando secondo Brad Griffin circa mille dollari, una cifra diverse volte superiore rispetto a quella ottenuta con gli annunci pubblicati sul sito negli ultimi mesi. «Per me la cosa si è risolta bene», ha detto Griffin.

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