La lingua di pattumiera

Anche Claudio Giunta interviene su IL sul modo di scrivere artefatto ed emotivo dei mass media, che ci peggiora tutti

(NICOLAS TUCAT/AFP/Getty Images)
(NICOLAS TUCAT/AFP/Getty Images)

In un lungo articolo sul mensile IL Claudio Giunta descrive la rinnovata attualità di un vecchio tema di riflessione tra le persone attente all’uso della lingua in Italia: quello che nelle sue sfumature varie è stato a volte definito della “lingua di plastica”, ovvero di un’artificiosità della lingua scritta e parlata alla ricerca di formule precostituite o meno immediate, per dar loro un ingenuo senso di maggiore ricercatezza. La responsabilità, che è stata a lungo della televisione, è ormai ereditata dalla scrittura in generale dei giornali e dei media (e del cinema tradotto), e infine dalle persone stesse, che hanno fatto propri questi modi di parlare. Giunta aggiunge alle riflessioni uno spunto sull’inclinazione del giornalismo contemporaneo a generare emozioni nel lettore piuttosto che a raccontare fatti.

L’antilingua descritta da Calvino è la lingua satura di formule burocratiche, la lingua nemica della chiarezza e della concretezza, la lingua che preferisce il verbo recarsi al verbo andare, la perifrasi prodotti vinicoli al sostantivo fiaschi, perché andare e fiaschi vengono sentiti come troppo vicini al parlato, troppo banali, troppo semplici, e chi non ha un buon controllo del linguaggio scambia spesso la semplicità per sciatteria, mancanza di eleganza: mentre una scrittura semplice è sempre raccomandabile, soprattutto quando si compilano atti ufficiali come una denuncia, o quando si scrive una legge. Osservato da questo punto di vista, il problema dell’antilingua è molto più serio di quanto il tono scherzoso di queste righe lascerebbe immaginare perché, come osserva più avanti Calvino, questa lingua artificiale, fasulla, è il sintomo di un rapporto sbagliato non solo con il linguaggio ma con la vita. Chi parla o scrive in questo modo vuole darsi un’aria di importanza, vuol essere più di quel che è realmente, vuole mettersi su un piano diverso e più alto dei suoi interlocutori: loro, poveretti, dicono andare, trovare, cena, mentre noi che sappiamo stare al mondo diciamo recarsi, incorrere nel rinvenimento, pasto pomeridiano. Il problema, insomma, non è solo linguistico ma è etico, è civile, perché adoperato a questo modo il linguaggio non serve, come dovrebbe, a comunicare, a farsi capire, ma al contrario a tenere a distanza, a mettere una barriera tra sé e gli altri anche là dove, come nel rapporto tra l’autorità e i cittadini, ogni barriera dovrebbe essere tolta.

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