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  • Lunedì 18 luglio 2016

In difesa dell’attivismo delle celebrità

Forse non serve a niente, è vero, ma spesso è comunque meglio delle frasi di circostanza di molti politici, scrive la giornalista Monica Hesse sul Washington Post

di Monica Hesse – The Washington Post

Beyoncé (Robin Harper/Invision for Parkwood Entertainment/AP Images)
Beyoncé (Robin Harper/Invision for Parkwood Entertainment/AP Images)

Quando nel 2006 alcuni funzionari del Partito Democratico statunitense lo incoraggiarono a candidarsi al Senato nel suo stato, l’Ohio, l’attore e attivista americano Martin Sheen rifiutò cortesemente. «Non sono qualificato», disse, «state confondendo la celebrità con la credibilità». A dieci anni di distanza, ogni qualvolta un evento spiacevole ispira dei titoli di giornali sulla “nostra nazione divisa”, le nostre celebrità si buttano nel dibattito a capofitto e con molto trasporto. Mescolano la celebrità con la credibilità, attivismo e commenti scritti su internet (o forse è autopromozione?). Intrappolati come siamo nel naufragio di una rovinosa nave senza timone – e mentre cerchiamo una guida nelle persone famose, se non la possiamo trovare in quelle che abbiamo eletto – finiamo anche noi con il mescolare queste cose.

Nazione, rivolgiamoci a LeBron James, che dopo l’uccisione di cinque agenti di polizia a Dallas ha twittato: «Questa notte soffriamo tutti. Altra violenza non è la risposta». Il commento benintenzionato, per quanto ovvio, ha ricevuto più di 100mila tra “mi piace” o retweet. Rivolgiamoci a Mischa Barton, o – a pensarci bene – meglio di no. Barton, un’attrice americana nota soprattutto per il suo ruolo di co-protagonista nella serie tv The O.C., ha postato su Instagram un appello «affranto» a «unirsi» dopo l’omicidio di Alton Sterling a Baton Rouge, in Louisiana. Il commento, però, era abbinato a una foto in cui era in bikini su uno yacht, e reggeva un bicchiere di vino.

Come prevedibile, la reazione più provocatoria e votata all’azione è stata quella di Beyoncé: «Sta a noi prendere posizione ed esigere che “smettano di ucciderci”», ha scritto sul suo sito dopo la morte di Sterling, ma prima della strage di Dallas. «Dobbiamo usare le nostre voci per contattare i politici e i legislatori del nostro distretto ed esigere cambiamenti a livello sociale e giudiziario». Beyoncé ha aggiunto dei link per aiutare i lettori a trovare il numero di telefono del proprio rappresentante politico. Secondo alcuni commentatori arrabbiati, Beyoncé avrebbe oltrepassato il confine di quello che dovrebbe fare una persona di spettacolo. Ma per cosa? Per aver espresso un’opinione? Per aver ricordato agli americani che a Washington si ammassano politici a carico dei contribuenti che hanno dei telefoni funzionanti? Beyoncé è un’artista con un tremendo potere sociale e assolutamente nessun potere politico, a meno che non inizi a finanziare campagne politiche o decida di candidarsi lei stessa (per favore Washington, non costringete Beyoncé a venire fin lì). Ciononostante, i suoi messaggi vengono assorbiti e ripostati. Perché si parla di Beyoncé, e perché in un periodo in cui il tasso di gradimento del governo federale è tremendamente basso (a giugno, l’80 per cento degli americani interpellati per un sondaggio di Gallup pensava che il Congresso stesse lavorando male), sorprende forse che siano le celebrità i nostri nuovi “primi soccorritori”, le persone a cui ci rivolgiamo per trovare saggezza in momenti di crisi? Di recente, abbiamo fatto sì che uno di loro ottenesse il 50 per cento di possibilità di diventare il prossimo leader del mondo libero.

Dal momento che i politici che abbiamo eletto battibeccano senza ottenere risultati su quale sia il modo giusto di occuparsi della retribuzione e la salute delle donne, rivolgiamoci a Emma Watson, il cui discorso alla Hermione Granger sull’uguaglianza delle donne all’ONU, nell’autunno 2014, è stato visto quasi otto milione di volte. I nostri feed di Twitter sono intasati dai “pensieri” e le “preghiere” prive di azione di politici che non sembrano sapere che altro fare dopo l’ennesimo atto di violenza insensata negli Stati Uniti. Ma poi Amy Schumer fa un commento tagliente a favore dei controlli sulle armi da fuoco nel suo programma televisivo e si unisce esplicitamente al suo cugino senatore (il Democratico Charles Schumer, eletto nello stato di New York) per far passare delle riforme. Si può anche non essere d’accordo con la sua posizione, ma almeno lei ne ha una. Almeno non è stato un altro, evasivo «piangiamo le vittime» espresso da uno dei rappresentanti che abbiamo eletto allo scopo preciso di fare qualcosa. Aiutaci, Amy Schumer. Sei la nostra unica speranza. Anche se le sue azioni non portano a niente. Anche se nessuna delle azioni delle celebrità portano a niente. La fama implica un intrinseco pregiudizio di conferma. Dopo tutto, attori e cantanti hanno costruito carriere convincendoci a credere in loro. Ritwittare uno dei loro commenti trasmette un senso di comunità che un commento scritto da noi non riesce a dare. Forse l’unico modo che questa nazione frantumata conosce per unirsi è ritwittare un messaggio di LeBron James. Forse in questi tempi travagliati, non sappiamo esattamente cosa fare ma sappiamo che il modo in cui l’ha fatto Mischa Barton è sbagliato.

Il rapporto tra celebrità e attivismo, ovviamente, è antico: i bed-in di John Lennon e Yoko Ono, o Harry Belafonte, la cui carriera da cantante fu accompagnata dall’attivismo sul fronte dei diritti civili. Belafonte – che fu un confidente di Martin Luther King – partecipava a comizi e marce, finanziava movimenti di protesta e viaggiava per il mondo per sostenere cause di sinistra. Oggi, la maggior parte delle celebrità usa le tastiere al posto del palco per fare discorsi. Con una notevole eccezione: Jesse Williams, l’attore di Grey’s Anatomy che ha fatto del movimento Black Lives Matter uno dei punti centrali del suo discorso agli ultimi BET Awards, e che è stato definito l’Harry Belafonte della sua generazione.

Se gli artisti sono così propensi ad assumere questo ruolo, forse oggi “smuovere le coscienze” fa parte dei requisiti del lavoro. Nel 2003, le Dixie Chicks fecero parlare di loro dopo che uno dei membri del gruppo criticò sul palco l’allora presidente George W. Bush. Al gruppo arrivarono diverse minacce di morte, tra cui una che diceva che avrebbero fatto meglio a «stare zitte e cantare». Le Dixie Chicks si sono sciolte per un po’, ma ora sono tornate insieme e hanno ripreso a fare concerti. Non state zitte, Dixie Chicks. Non state zitte Stacey Dash, Alyssa Milano, Patricia Arquette, o qualsiasi altra celebrità che cerchi goffamente una forma di dialogo. Non sapete cosa dire, ma non c’è praticamente nessun altro che lo sappia.

© 2016 – The Washington Post