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  • Martedì 12 luglio 2016

La sentenza internazionale contro la Cina

Il tribunale dell'Aia ha detto che non esistono basi legali per le sue rivendicazioni nel mar Cinese Meridionale, in una decisione descritta come «un importante bivio» per la Cina

Attivisti di fronte al consolato cinese a Manila, nella Filippine, mentre manifestano contro l'atteggiamento della Cina nel mar Cinese Meridionale (NOEL CELIS/AFP/Getty Images)
Attivisti di fronte al consolato cinese a Manila, nella Filippine, mentre manifestano contro l'atteggiamento della Cina nel mar Cinese Meridionale (NOEL CELIS/AFP/Getty Images)

Un tribunale internazionale appoggiato dall’ONU e con sede all’Aia (nei Paesi Bassi) ha detto che non ci sono basi legali che sostengano le rivendicazioni territoriali della Cina nel mar Cinese Meridionale. La causa era stata intentata di fronte a una corte di arbitrato dal governo delle Filippine nel gennaio del 2013, dopo che la marina cinese aveva preso il controllo di Scarborough Shoal, una catena di scogli e rocce in gran parte sommersa che si trova in mezzo a una zona molto ricca per la pesca al largo dell’isola filippina di Luzon. Il tribunale internazionale, in sostanza, ha condannato l’atteggiamento della Cina nel mar Cinese Meridionale, che fa discutere da molti anni: riguardo sia alla costruzione di isole artificiali, sia alle interferenze con le attività di pesca di altri paesi che rivendicano la stessa zona di mare.

Nello specifico il tribunale ha detto che la cosiddetta “nine-dash line” usata dalla Cina per delimitare le proprie rivendicazioni nel mar Cinese Meridionale è in contrasto con la convenzione delle Nazioni Unite sulla legge del mare. Tutta la questione delle aree contese è nata nel 1947, quando l’allora governo cinese nazionalista – quello che oggi ha sede a Taiwan – fece alcune vaghe rivendicazioni su una serie di isole disabitate nel mar Cinese Meridionale, alcune delle quali a migliaia di chilometri dalle coste cinesi e a poche decine da quelle di Vietnam, Filippine e Malesia. Unendo questi “nove puntini” (che all’inizio erano undici) si ottiene una forma ad “U” che occupa sostanzialmente l’intero Mar Cinese Meridionale. Nel 1949, con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese guidata dai comunisti, il nuovo governo fece proprie le rivendicazioni precedenti dei nazionalisti. Ancora oggi la questione rimane piuttosto indefinita, visto che la Cina non ha mai chiarito ufficialmente quali siano i confini delle aree che rivendica. Non sono chiari nemmeno i motivi per cui i cinesi dovrebbero rivendicare un’area così lontana dalle loro coste (alcuni accademici cinesi hanno suggerito ragioni storiche non meglio precisate).

La linea ottenuta collegando i nove puntini – che in inglese è indicata con l’espressione “nine-dash line” – è in conflitto con le cosiddette “zone di sfruttamento economico esclusivo” di tutti i paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale: Filippine, Brunei, Malesia e Vietnam. Semplificando, si tratte di aree su cui, per le leggi internazionali, un paese gode di diritti economici esclusivi, in quanto situate entro 200 miglia nautiche dalle coste. La questione è ritornata di attualità nel corso del 2014, quando il governo cinese ha cominciato la costruzione di quella che è stato soprannominata la “Grande muraglia di sabbia”, cioè l’ingrandimento delle isole Paracel e Spratly, una serie di isolette e barriere coralline disabitate.

La sentenza del tribunale internazionale è molto importante: il New York Times l’ha definita «un importante bivio nella crescita della Cina come potenza globale». È la prima volta che il governo cinese diventa oggetto di una sentenza internazionale di questo tipo, che potrebbe portare altri paesi che hanno interessi nel mar Cinese Meridionale a negoziare con il governo di Pechino per ottenere dei benefici e per ammorbidire l’atteggiamento aggressivo che la Cina ha sempre adottato in questa area. La Cina, comunque, si è rifiutata di partecipare al procedimento legale all’Aia, e poco dopo la diffusione della sentenza ha reagito molto duramente: per esempio l’agenzia stampa Xinhua, che come il resto dei media in Cina è controllato dal governo, ha parlato di una sentenza nulla e senza valore.