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  • Martedì 31 maggio 2016

La zia di Kim Jong-un

Il dittatore nordcoreano ha dei parenti che vivono in segreto negli Stati Uniti e collaborano con la CIA: il Washington Post ha incontrato la donna che l'ha accudito da ragazzo

di Anna Fifield – The Washington Post

La zia del leader nordcoreano Kim Jong-un, Ko Yong-suk con suo marito a Times Square, a New York, il 23 aprile 2016 ( (Yana Paskova/For The Washington Post)
La zia del leader nordcoreano Kim Jong-un, Ko Yong-suk con suo marito a Times Square, a New York, il 23 aprile 2016 ( (Yana Paskova/For The Washington Post)

Mentre passeggia per Times Square – camminando oltre gli artisti di strada, le persone travestite da personaggi dei cartoni animati e i bagarini – potrebbe essere scambiata per un’immigrata qualsiasi che cerca di vivere il sogno americano: una donna coreana di sessant’anni, vestita in modo classico e con una leggera permanente, che si è presa un finesettimana libero dalla lavanderia che gestisce con suo marito, dove stira camicie e fa l’orlo ai pantaloni. La donna però non è un’immigrata qualsiasi: è la zia di Kim Jong-un, il giovane leader nordcoreano che tra le altre cose ha minacciato di distruggere New York con una bomba all’idrogeno. Negli ultimi 18 anni – da quando cioè ha abbandonato la Corea del Nord per essere accolta dalla CIA – vive in anonimato negli Stati Uniti con suo marito e i loro tre figli.

«I miei amici che vivono qui mi dicono che sono molto fortunata, che ho tutto», ha raccontato recentemente al Washington Post Ko Yong-suk, il nome con cui era conosciuta quando faceva ancora parte della più potente famiglia nordcoreana. «I miei figli hanno frequentato ottime scuole e hanno un buon lavoro; e con me c’è mio marito, che sa sistemare tutto. Non ci manca niente». Suo marito, che in Corea del Nord era conosciuto come Ri Gang, ha aggiunto ridendo: «Abbiamo realizzato il sogno americano». Questa è la storia di una famiglia passata dalle élite nordcoreane alla classe media americana.

Ko e Ri hanno concesso a due giornalisti del Washington Post un’intervista lunga quasi venti ore, tra New York e la loro casa, a diverse ore di auto dalla città, parlando per la prima volta da quando sono negli Stati Uniti. Ko e Ri erano nervosi all’idea di uscire dall’anonimato: in fondo, ci sono americani che per lavoro si occupano di analizzare la situazione in Corea del Nord e non sanno nemmeno che la coppia vive negli Stati Uniti. Hanno chiesto al Washington Post di non pubblicare i nomi che usano negli Stati Uniti, né dove vivono, soprattutto per tutelare i loro figli adulti, che lavorano e hanno una vita normale.

Ko somiglia molto a sua sorella, Ko Yong-hui, una delle mogli di Kim Jong-il e madre di Kim Jong-un. La loro famiglia è a capo della Corea del Nord da tre generazioni. Ko ha avuto un rapporto molto stretto con l’uomo che oggi è considerato uno dei principali nemici degli Stati Uniti: si è presa cura di Kim Jong-un nel periodo in cui studiava in Svizzera. Nel 1998 però, quando Kim Jong-un aveva 14 anni e suo fratello maggiore Kim Jong-chul 17, Ko e Ri decisero di abbandonare la Corea del Nord: la sorella di Ko – che rappresentava il loro legame con il regime – aveva un tumore al seno in fase terminale (anche se morì solo diversi anni dopo, nel 2004), e i ragazzi stavano crescendo. La coppia capì che il regime non avrebbe più avuto bisogno di loro e, preoccupata di perdere i propri privilegi, decise di scappare.

La famiglia di Kim governa la Corea del Nord da settant’anni con un regime repressivo fondato sul clientelismo e sulla paura. La famiglia di Kim e i dirigenti più importanti del Partito dei Lavoratori traggono benefici dal sistema, e sono le persone che avrebbero di più da perdere nel caso di un crollo o di un conflitto con il regime. Ko e Ri decisero quindi di scappare: non in Corea del Sud, come fanno molti nordcoreani, ma negli Stati Uniti, dove hanno lavorato sodo nella lavanderia che gestiscono e dove i loro tre figli sono diventati maggiorenni, hanno frequentato università valide e trovato un buon lavoro. La famiglia vive in una grande casa di due piani che ha due auto parcheggiate nel vialetto privato, un enorme televisore in salotto e una griglia sulla veranda sul retro. Sono stati in vacanza a Las Vegas e due anni fa sono andati in Corea del Sud, dove Ko ha potuto apprezzare dal vivo i palazzi che aveva visto nelle fiction in TV.

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Ko Yong-suk lavora nella sua lavanderia (The Washington Post/Getty Images)

Sembrano una famiglia normale. Guardando meglio, però, salta all’occhio una foto, in cui il figlio maggiore di Ko guida una moto d’acqua. La foto fu scattata a Wŏnsan, dove si trova la residenza estiva della famiglia di Kim Jong-un. Nella foto c’è anche una ragazza, Kim Yo-jong, sorella minore di Kim Jong-un e responsabile della propaganda del Partito dei Lavoratori. La casa dove Ko vive con la sua famiglia invece è stata comprata in parte grazie ai 200mila dollari pagati alla coppia dalla CIA al loro arrivo negli Stati Uniti, raccontano Ko e Ri.

Nonostante Ko e Ri non vedano Kim Jong-un da quasi vent’anni, e sembra non abbiano mai avuto posizioni ufficiali nel regime, le informazioni di intelligence americane sulla Corea del Nord sono così poche da fare di questa coppia una preziosa fonte d’informazioni sulla famiglia di Kim. Ko e Ri hanno rivelato, per esempio, che Kim Jong-un è nato nel 1984, e non nel 1982 o nel 1983, come si pensava; lo possono dire con certezza dal momento che il loro primogenito è nato nello stesso anno. «Lui e mio figlio sono stati compagni di giochi dalla nascita. Cambiavo i pannolini a tutti e due», ha raccontato Ko, ridendo. Capita che degli agenti del National Clandestine Service della CIA vengano a trovare Ko e Ri e mostrino loro foto di nordcoreani, chiedendo alla coppia di identificarli. La CIA si è rifiutata di confermare o commentare le affermazioni di Ko e Ri. Parte della storia della coppia può essere verificata, mentre in altri casi o non è possibile farlo o le informazioni sono incomplete. Ancora oggi, Ri simpatizza per il regime nordcoreano e sta cercando di ottenere il permesso per visitare Pyongyang. Sia lui che Ko fanno attenzione a cosa dicono sul loro potente nipote, a cui si riferiscono definendolo ripetutamente come il «Maresciallo Kim Jong-un». Il quadro che hanno dato sul loro vecchio incarico descrive un uomo che è cresciuto sapendo che un giorno sarebbe diventato il leader del paese.

Ko Yong-suk arrivò a Berna nel 1992 con Kim Jong-chul, il primogenito di sua sorella e Kim Jong-il, che due anni dopo sarebbe diventato il leader della Corea del Nord. Kim Jong-un li raggiunse nel 1996, quando aveva dodici anni. «Vivevamo in una casa normale e ci comportavamo come una famiglia normale. Mi comportavo come se fossi la loro madre», ha detto Ko parlando del periodo passato a Berna. «Lo incoraggiavo a invitare a casa i suoi amici perché volevamo che avessero una vita normale. Preparavo la merenda ai ragazzi: mangiavano torte e giocavano con i Lego». Grazie a un passaporto diplomatico Ri faceva avanti e indietro tra la Corea del Nord e la Svizzera, alcune volte portandosi dietro la loro figlia più piccola e lo sorellina di Kim Jong-un. Anche se a casa si parlava coreano e si mangiava cibo coreano, la famiglia godeva dei vantaggi della vita da espatriati in un posto “esotico”. Ko portò i suoi nipoti a Disneyland Parigi (Kim Jong-un era già stato a Disneyland a Tokyo con la madre qualche anno prima), e il suo album fotografico è pieno di loro foto mentre sciano sulle Alpi svizzere, nuotano in Costa Azzurra, o mangiano in ristoranti all’aperto in Italia. Kim Jong-un era appassionato di giochi e macchinari – cercava di capire come stanno a galla le navi e come volano gli aerei – e mostrava già alcuni dei tratti della sua personalità che con gli anni sarebbero diventati molto più evidenti. «Non era un bambino che creava problemi, ma si arrabbiava facilmente ed era poco tollerante», ha raccontato Ko. «Quando suo madre lo sgridava perché giocava troppo e non studiava abbastanza, non le rispondeva, ma protestava comunque in altri modi, per esempio rifiutandosi di mangiare».

Kim adorava tornare a casa d’estate e rimanere a Wŏnsan, dove la sua famiglia ha un’enorme proprietà sul mare, o nella residenza principale di Pyongyang, che ha un cinema all’interno ed è molto spaziosa. «Iniziò a giocare a basket. Diventò un’ossessione», ha detto Ko del giovane Kim, che era fan di Michael Jordan e avrebbe poi ospitato diverse volte in Corea del Nord il famoso ex giocatore di basket Dennis Rodman. «Dormiva con il suo pallone da basket». Kim era più basso dei suoi amici e sua madre gli aveva detto che se avesse giocato a basket sarebbe cresciuto, ha raccontato Ko. Una volta a casa, Ri ha tirato fuori da una busta un’inedita foto plastificata che mostrava un esile Kim a tredici anni con suo fratello maggiore, entrambi vestiti con la divisa da basket insieme ai loro compagni di squadra dopo un torneo a Pyongyang; Ri è seduto in prima fila, mentre Ko è in piedi in fondo, e Kim regge un trofeo dorato.

Il mondo scoprì che Kim era stato scelto per diventare il successore di suo padre nell’ottobre del 2010, quando il suo status fu ufficializzato durante una conferenza del Partito dei Lavoratori a Pyongyang. Ma Kim sapeva che un giorno avrebbe ereditato la guida della Corea del Nord già dal 1992. Il segnale arrivò alla festa per il suo ottavo compleanno, a cui erano presenti le élite nordcoreane, hanno raccontato Ko e Ri. A Kim fu data un’uniforme da generale decorata da stelle militari, e diversi generali con delle vere decorazioni si inchinarono davanti a lui: da quel momento in avanti avrebbero iniziato a mostrare il loro rispetto per il futuro leader. «Per lui fu impossibile crescere come una persona normale, visto come era trattato dalle persone che aveva intorno», ha detto Ko.

Ko si ritrovò a passare improvvisamente da un contesto umile agli strati più alti della società nordcoreana quando sua sorella, che lavorava per un corpo di ballo di Pyongyang, fu notata dal principe Kim Jong-il, diventandone nel 1975 la terza compagna. «Ero molto legata a mia sorella. Essere la moglie di Kim Jong-il era difficile, e così mi chiese di aiutarla. Si fidava di me perché avevo il suo stesso sangue». Kim Jong-il scelse personalmente Ri come marito di sua cognata. Vivevano tutti insieme nella residenza di Pyongyang, dove per molti anni Ko si occupò dei suoi figli e di quelli di sua sorella. «Facevamo la bella vita», ha detto Ko durante un pranzo a base di sushi a New York. Ko ha raccontato di quando a Pyongyang beveva cognac con acqua frizzante e mangiava caviale, o dei suoi giri in Mercedes con Kim Jong-il. Poi ci furono gli anni felici in Europa. Nel 1998, però, la sorella di Ko scoprì di avere un tumore al seno, e iniziò a farsi curare in Svizzera e Francia.

Da questo punto il racconto degli eventi di Ko e Ri diventa confuso. Dal momento che sta cercando di tornare nelle grazie di Kim Jong-un, Ri ha un buon motivo per raccontare la fuga come un gesto puramente altruistico. Secondo la versione dei fatti di Ri e Ko, le cure per il cancro in Europa non stavano avendo effetti. Decisero quindi di andare negli Stati Uniti nel tentativo di trovare un’altra cura per la sorella di Ko, ormai in punto di morte. Dicono di essere fuggiti per cercare di salvare la madre di Kim Jong-un. Secondo le ricostruzioni dei media sudcoreani, invece, Ko e Ri avrebbero cercato asilo negli Stati Uniti perché erano preoccupati di cosa sarebbe successo loro dopo la morte di uno dei genitori di Kim Jong-un, il loro unico legame con la famiglia. Passeggiando per Central Park in un’assolata domenica mattina, Ko è sembrata confermare questo timore. «Nella storia ci sono stati diversi casi di persone vicine a un leader potente che sono finite nei guai senza volerlo e per colpa di altri», ha detto. «Pensai che sarebbe stato meglio se fossimo rimasti lontani da quel tipo di guai».

Ko e Ri avevano delle buone ragioni per essere spaventati, vista la posizione della sorella di Ko, ha detto Micheal Madden, direttore del sito North Korea Leadership Watch. «Ko Yong-hui era una donna ambiziosa: voleva che i suoi figli scalassero posizioni, e per riuscire a farlo si fece dei nemici», ha raccontato Madden. «Nei panni di sua sorella o suo cognato, è normali sentirsi minacciati: qualcuno avrebbe potuto farli sparire facilmente». A dimostrazione di come oggi i pericoli non siano scomparsi ci sono casi come quello di Jang Song-thaek, uno zio di Kim Jong-un che aveva vissuto nella residenza di Pyongyang con Ko e Ri; a quanto pare era diventato troppo potente, e nel 2013 Kim lo fece uccidere.

Un giorno nel 1998 Ri, Ko e i loro tre figli presero un taxi verso l’ambasciata americana a Berna. Dissero di essere diplomatici nordcoreani e di voler fare richiesta di asilo. Dopo diversi giorni, durante i quali da Washington arrivò una persona in grado di parlare coreano, Ko e Ri furono portati in una base militare americana vicino a Francoforte. Furono sistemati in una casa nella base dove rimasero diversi mesi, durante i quali furono interrogati. Fu allora che Ri e Ko rivelarono i loro legami familiari. «Il governo americano non sapeva chi fosse Kim Jong-un, e che sarebbe diventato il leader della Corea del Nord», ha detto Ri. Il governo americano non disse alla Corea del Sud, sua alleata, di avere in custodia Ko e Ri finché i due non furono in territorio americano: facendo infuriare, pare, il governo di Seul.

Per i servizi di intelligence americani, che faticano a ottenere informazioni affidabili sui meccanismi interni al regime nordcoreano, la fuga di Ko e Ri deve essere sembrata una manna dal cielo. Ri però continuò a ribadire che lui e Ko non sapevano molto. «Ci limitavamo a occuparci dei ragazzi e ad aiutarli a studiare, quindi abbiamo certamente visto molto della loro vita privata, ma non avevamo niente a che fare con questioni legate alla difesa. Non eravamo a conoscenza di segreti nucleari o militari». Secondo Madden il valore di Ko e Ri dal punto di vista dell’intelligence sarebbe stato limitato. La pensa così anche Alexandre Mansourov, un esperto del regime nordcoreano che ha studiato all’università Kim Il Sung di Pyongyang. «Certamente conoscono molto bene il sistema», ha detto Mansourov, ma «non hanno vissuto la carestia e la ripresa, la transizione verso la nuova leadership e tutti gli eventi degli ultimi cinque anni. Da questo punto di vista, vivono nel passato».

Quando arrivarono negli Stati Uniti, Ko e la sua famiglia passarono alcuni giorni nella zona di Washington, non lontano dalla sede della CIA, prima di trasferirsi in una piccola città dove una chiesa sudcoreana si era offerta di aiutarli, come aveva fatto con altri esuli nordcoreani. «In chiesa continuavano a farci domande. Sapevano che venivamo dalla Corea della Nord, ma ci dicevano che non sembravamo nordcoreani. Continuavano a farci domande», ha raccontato Ko. La famiglia quindi si trasferì in un’altra città dove vivevano pochi coreani o altri asiatici. «All’inizio fu difficile. Non avevamo parenti e lavoravamo per dodici ore al giorno», ha detto Ri, che lavorò prima come operaio edile e poi nel settore della manutenzione degli appartamenti, lavori che era facile fare senza saper parlare inglese. Ko era frustrata perché non riusciva a trovare un lavoro e contribuire alla famiglia. «L’unica cosa che potevo fare senza sapere l’inglese era lavorare in una lavanderia», ha detto in coreano. Mentre il livello di inglese di Ri oggi è accettabile, quello di Ko è ancora scarso. Ri e Ko aprirono quindi una piccola lavanderia e iniziarono a lavorare molto: Ri gestiva i macchinari e Ko si occupava delle modifiche ai vestiti. In breve tempo iniziarono a prendere il ritmo. «Vedere i miei figli che andavano bene a scuola e mio marito lavorare così tanto mi diede la forza per andare avanti», ha raccontato Ko. I loro figli non erano interessati alla Corea, né a quella del Nord né tanto meno a quella del Sud. Il primogenito di Ko e Ri è un matematico, il loro secondo figlio li aiuta a gestire la lavanderia, mentre la loro figlia si occupa di informatica. Hanno una vita agiata ma che di certo non sembra lussuosa. Dopo essersi fermati in un distributore di benzina per pranzo, Ko ha sottolineato quanto fosse economica l’acqua in bottiglia e si è detta delusa di non aver trovato più burrito. I tempi in cui mangiava caviale e beveva cognac sono lontani.

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(The Washington Post/Getty Images)

Ma perché Ko e Ri hanno deciso di rompere il silenzio adesso? Ri ha detto di voler visitare la Corea del Nord e di aver deciso di uscire dalla copertura per smentire quelle che definisce «bugie» fatte circolare sul loro conto e sui loro parenti in Corea del Nord da parte dei critici al regime in Corea del Sud. L’anno scorso Ri e Ko hanno denunciato tre importanti transfughi nordcoreani che li avevano accusati alla TV sudcoreana, tra le altre cose, di aver fatto interventi di chirurgia plastica e aver rubato milioni di dollari al regime di Kim. Ko e Ri avevano assunto un famoso avvocato, Kang Yong-seok, per intentare una causa per diffamazione, che però fu respinta per un tecnicismo. Kang ha organizzato l’incontro tra il Washington Post e la coppia, ed è stato presente durante la maggior parte delle interviste a New York.

Nonostante gli anni passati negli Stati Uniti, la Corea del Nord ha ancora la sua influenza. Ri, che fa molta attenzione a non parlare male del regime in presenza di giornalisti, si propone come la persona in grado di avvicinare le sempre più lontane Washington e Pyongyang. «Il mio obiettivo è tornare in Corea del Nord. Capisco l’America e capisco la Corea del Nord, quindi penso di poter fare da negoziatore tra i due paesi», ha detto. «Se Kim Jong-un è ancora come lo ricordo, riuscirei a incontrarlo e a parlarci».

Secondo Mansourov le speranze di Ri di tornare in Corea del Nord sono «ridicole». «Negli Stati Uniti vive bene. Non ha motivo per tornare, a meno che non voglia “fare carriera”». Ko ha detto di sentire la mancanza della sua città – l’influenza della propria città ha un grande valore nella cultura coreana – ma non vuole tornare e nemmeno che Ri vada in Corea del Nord. «Ma come faccio a far cambiare idea al mio marito testardo?». Fortunatamente per Ko, è Kim Jong-un a dover decidere: e non sembra interessato ad avere un intermediario che lo aiuti a migliorare le relazioni con gli Stati Uniti.

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