Persino negli Stati Uniti ora si parla di reddito di cittadinanza

E tra i più scettici davanti all'ipotesi di introdurre un reddito-base per tutti ci sono le persone di sinistra, mentre i conservatori sono più possibilisti

di Paula Dwyer - Bloomberg

(George Marks/Retrofile/Getty Images)
(George Marks/Retrofile/Getty Images)

Di tanto in tanto capita che spunti fuori una proposta economica meritevole, che sembra tanto sensata quanto irrealizzabile da un punto di vista politico. A un’analisi più approfondita, poi, ci si rende conto che la proposta è qualcosa di più di una fantasia di un impallinato di politica, e ci si inizia a chiedere se potrebbe realizzarsi davvero. È quello che sta succedendo con il reddito di cittadinanza universale.

Oggi l’idea che un governo dovrebbe garantire a ogni cittadino un reddito annuale di, diciamo, 10mila euro, in modo incondizionato, è allo studio di politici, economisti ed esperti di tutto il mondo. Pensate al reddito di cittadinanza come a una sorta di ammortizzatore sociale universale. Esperimenti del genere sono già in programma, o in corso, nelle democrazie sociali in Europa, Canada e Sud America. Negli Stati Uniti è ancora poco più di un’idea, che sembra avere più sostenitori tra i conservatori di quanti ne abbia a sinisra. Bernie Sanders si è definito un simpatizzante della teoria che sta dietro al reddito universale di cittadinanza, senza arrivare però a sostenerla; Hillary Clinton è sembrata anche meno entusiasta. Dall’altra parte, però, economisti, politici e membri di centri studi conservatori sono più convinti. Marco Rubio, per esempio, aveva proposto di introdurre le basi per un reddito di cittadinanza nel suo programma fiscale per il 2015.

Il resto del mondo nel frattempo sta facendo da guida. Il 5 giugno in Svizzera si terrà un referendum per decidere se dare o meno a ogni cittadino adulto 2.500 franchi svizzeri (circa 2.270 euro) al mese; la provincia canadese dell’Ontario sperimenterà il reddito di cittadinanza quest’anno; la città di Utrecht nei Paesi Bassi sta già svolgendo un programma pilota; la Finlandia sta programmando una prova di due anni; nel Regno Unito una proposta sul tema sta attirando interesse, mentre a maggio una no-profit inizierà a dare a seimila keniani un reddito garantito per un periodo di almeno dieci anni, monitorando i risultati dell’esperimento.

Ci sono molte proposte a favore dell’introduzione di un reddito di cittadinanza, con un’infinità di motivazioni diverse. Per alcuni progressisti negli Stati Uniti, il reddito di cittadinanza è la massima aspirazione di un’economia sviluppata: un modo per ridurre povertà e disuguaglianza, e attenuare le difficoltà per la perdita del lavoro e la stagnazione economica; molte persone di sinistra invece la considerano un’idea ingenua e una distrazione da priorità più facili da ottenere, come l’introduzione di un salario minimo più alto e del congedo parentale retribuito. Dall’altra parte, i conservatori americani sono attratti dall’idea di un minore intervento del governo nelle vite delle persone e sostengono che nel reddito di cittadinanza si potrebbero condensare decine di programmi di welfare che oggi costano ai contribuenti americani circa 1.000 miliardi all’anno. Senza criteri di idoneità o di applicazione, i costi amministrativi sarebbero ridotti al minimo, così come i casi di spreco, truffa o abusi.

Negli anni Sessanta le discussioni sul reddito di cittadinanza erano parte del dibattito politico americano. Il presidente americano Richard Nixon propose di fissare un livello minimo di reddito, sulla base delle teorie sviluppate da Daniel Patrick Moynihan, suo consigliere di politica interna dell’epoca. Come avrebbe in seguito scritto Moynihan, tra i motivi per i quali la proposta non prese mai piede ci furono l’opposizione della sinistra – non volevano che avere un lavoro diventasse un requisito necessario per ottenere assistenza – e l’ostruzionismo di una “lobby del welfare” ben organizzata. Al suo posto venne introdotto un credito di imposta sui redditi da lavoro, ma solo come integrazione ai guadagni della classe lavoratrice povera. Il credito d’imposta fu proposto per la prima volta nel 1962 dall’economista conservatore Milton Friedman, che tra i suoi obiettivi aveva porre fine al cosiddetto earnings cliff (letteralmente, “baratro dei guadagni”), il sistema per cui i sussidi del governo venivano sospesi una volta che un lavoratore superava una determinata soglia di reddito. La presenza di un limite disincentivava i beneficiari del credito di imposta a lavorare, mantenendoli così poveri e dipendenti dai sussidi. Negli Stati Uniti il credito d’imposta esiste ancora ed è generalmente considerato un programma efficace per contrastare la povertà. Il problema del baratro fiscale, però, nel frattempo è peggiorato: gli Stati Uniti oggi hanno più di 80 programmi destinati ai cittadini con redditi bassi, ognuno dei quali ha i propri criteri di idoneità e i propri tetti ai guadagni.

Negli Stati Uniti in particolare, oggi l’idea di un reddito di cittadinanza universale sta vivendo un periodo di rinnovata popolarità: non solo nei centri studi di Washington ma anche nella Silicon Valley, come ha scritto il giornalista di Bloomberg Justin Fox. Y Combinator, una società di venture capital (ovvero quelle aziende che offrono alti guadagni potenziali a fronte del rischio di investimento iniziale), sta lanciando un progetto di ricerca sul tema: darà a un gruppo di persone selezionate a caso un assegno mensile, per poi controllare se staranno seduti a giocare ai videogiochi o creeranno valore economico. La Silicon Valley è interessata a capire che ruolo abbia la tecnologia nell’aumento della perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti. Due professori dell’Università di Oxford hanno scritto recentemente che circa il 47 per cento dei lavoratori negli Stati Uniti rischiano di essere sostituiti da macchine. Nel caso questo scenario si verificasse davvero, l’economia si contrarrebbe e sempre meno persone sarebbero in grado di comprare i prodotti realizzati dalla Silicon Valley.

Il timore che i beneficiari di un reddito di cittadinanza si trasformino in nullafacenti potrebbe essere infondato. Secondo un economista che ha studiato degli esperimenti condotti in Canada negli anni Settanta succederebbe anzi il contrario: i beneficiari del sussidio si rivelavano più in salute degli altri e finivano gli studi con voti migliori, mentre gli adulti con un lavoro a tempo pieno continuavano a lavorare per lo stesso numero di ore di prima. Con un’eccezione: le donne, comprensibilmente, allungavano i congedi dopo aver partorito.

I costi per garantire ai 322 milioni di americani un reddito di 10mila dollari all’anno sembrerebbero proibitivi (3.200 miliardi di dollari l’anno). Ma se si escludono i 45 milioni di pensionati che hanno già un reddito garantito dalla previdenza sociale, il costo si abbasserebbe a 2.700 miliardi di dollari l’anno. Se poi il sussidio venisse ridotto gradualmente per le famiglie con in reddito superiore ai 100mila dollari (cioè il 20 per cento delle famiglie americane: 70 milioni di persone, se si stimano tre persone per famiglia) il costo della manovra scenderebbe a circa 2mila miliardi di dollari. Infine si potrebbe limitare il programma solo agli adulti, riducendone ulteriormente il costo a 1.500 miliardi. In questo modo ci si avvicinerebbe a 1.000 miliardi di dollari, il costo complessivo odierno di tutti gli assegni di disoccupazione, i crediti di imposta, i buoni spesa e per la casa, e una miriade di altri sussidi basati sul reddito presenti negli Stati Uniti, che potrebbero essere sostituti da un semplice reddito di cittadinanza.

È su questo punto che si oppone qualcuno a sinistra, a cui non piace l’idea che un reddito di cittadinanza si sostituisca al tradizionale welfare, nonostante le rassicurazioni sul fatto che alcuni programmi – sull’istruzione, la formazione lavorativa e la sanità – sarebbero mantenuti. La sinistra americana teme che i dipendenti pubblici che si occupano di gestire i sussidi sarebbero licenziati, e che un reddito di cittadinanza finirebbe per essere più basso dalla cifra che molte persone ricevono combinando tutti i programmi governativi e di previdenza sociale. Sono preoccupazioni legittime. Ma mentre altri paesi stanno verificando l’idea e cercano di migliorare i loro sistemi di assistenza sociale, ha senso che gli Stati Uniti continuino ad avere una costosa serie di programmi che nella maggior parte dei casi non sono riusciti a eliminare povertà e dipendenza? Un sistema di previdenza sociale generalizzato potrebbe non essere solo una fantasia, in fondo.

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