• Moda
  • Giovedì 22 ottobre 2015

Perché non esiste una LVMH italiana?

Cioè una grossa azienda di lusso che ne possiede molte altre: per esempio perché i marchi italiani sono troppo recenti e non producono accessori

di Enrico Matzeu – @enricomatzeu

Alcune borse di Louis Vuitton, di proprietà della holding LVMH, in un negozio di Melbourne, Australia
29 ottobre 2009
(Scott Barbour/Getty Images)
Alcune borse di Louis Vuitton, di proprietà della holding LVMH, in un negozio di Melbourne, Australia 29 ottobre 2009 (Scott Barbour/Getty Images)

Business of Fashion – uno dei più autorevoli siti online dedicati alla moda – ha pubblicato un articolo della giornalista Robin Mellery-Pratt che spiega perché in Italia non esiste un’azienda-madre che aggrega altri brand di moda, contrariamente a quanto accade nel resto del mondo per esempio con le holding di lusso francesi LVMH, Kering e la svizzera Richemont. La cosa è piuttosto insolita visto il peso economico di molte aziende di moda italiane: almeno nove superano il miliardo di euro di fatturato l’anno (Armani, Prada, Gucci, Bottega Veneta, Dolce & Gabbana, Fendi, Max Mara, Bulgari, Zegna) a cui si aggiungeranno presto, secondo la rivista, anche Valentino, Versace e Salvatore Ferragamo.

Queste tre grandi multinazionali controllano moltissime aziende di beni di lusso, tra cui marchi di vestiti, accessori e gioielli. La più grande è la francese LVMH, nata dalla fusione tra l’azienda di pelletteria Louis Vuitton e la Moët Hennessy, specializzata in alcolici. Ha un fatturato annuo di circa 30,6 miliardi di euro e, tra gli altri, possiede i marchi italiani Fendi, Emilio Pucci, Loro Piana e Bulgari. Segue la svizzera Richemont, che ha un fatturato di 10,4 miliardi di euro, non ha mai acquisito marchi italiani (l’unica eccezione è Officine Panerai, marchio produttore di orologi che è stato fondato a Firenze e ha il suo quartiere generale in Italia, ma la produzione in Svizzera) ed è la proprietaria di Cartier. Kering è stata fondata dal francese François Pinault, e controlla Gucci e alcune aziende italiane come come Bottega Veneta, Brioni e Sergio Rossi, per un fatturato annuo di circa 10 miliardi di euro.

Secondo Mario Ortelli, analista dell’agenzia americana di investimenti e ricerche Sanford C. Bernstein, uno dei motivi per cui in Italia non è nata una holding del lusso è che le aziende italiane sono più concentrate sul prêt-à-porter e meno sugli accessori: il che le rende meno competitive delle francesi. Per un’azienda di moda, gli accessori – soprattutto borse, scarpe e piccola pelletteria – sono i prodotti che vendono di più e che permettono guadagni molto alti: rispetto ai vestiti hanno costi di produzione inferiori e hanno buoni margini di guadagno. Nel caso di LVHM, ad esempio, sono pari a 10,8 miliardi di euro, quando il fatturato complessivo è 30,6 miliardi di euro.

Secondo Luca Solca, responsabile dei prodotti di lusso di Exane PNB Paribas, per costruire una holding di grandi dimensioni è necessario avere quello che in gergo viene chiamato core brand, ovvero un marchio forte e soprattutto redditizio: si tratta di Louis Vuitton per LVHM, Gucci per Kering, e Cartier per Richemont. Fa anche notare che delle nove aziende di moda italiane che superano il miliardo di fatturato, quattro sono di proprietà francese: Fendi, Bulgari, Gucci e Bottega Veneta. Le aziende che possono quindi diventare il core brand di una holding italiana non sono molte. Prada ci ha provato, senza successo, nel 1999; aveva un fatturato sotto ai 700 milioni di euro e acquistò le case di moda Jil Sander e Helmut Lang, e l’azienda di scarpe Church’s. Sempre all’epoca cercò di acquistare anche Gucci e di Fendi, ma la cosa non andò a buon fine.

Inoltre molte aziende di moda italiane sono nate dopo la Seconda guerra mondiale, e le più forti dal punto di vista economico sono ancora guidate dai fondatori o dagli eredi, che spesso non hanno intenzione di cederle. L’industria di moda francese, invece, è più antica di quella italiana, e marchi come Chanel, Balenciaga, Givenchy, Vuitton, Hermés, nati quasi tutti nella prima metà del Novecento, sono stati venduti da tempo a multinazionali che li hanno trasformati in brand strutturati. In Italia inoltre grosse aziende come Armani, Salvatore Ferragamo, Dolce & Gabbana e Ermenegildo Zegna hanno portato avanti strategie di crescita individuali senza l’ambizione di espandersi e creare un gruppo italiano. Anche Prada non sembra più interessata a ingrandirsi – mantiene solo Miu Miu e Church’s –, mentre secondo Ortelli il gruppo Tod’s di Diego Della Valle – che possiede anche Hogan, Fay e Roger Vivier – potrebbe puntare al massimo al settore delle calzature.

L’unico gruppo che in Italia sta acquistando molti marchi, anche stranieri, è OTB di Renzo Rosso, che sta costruendo una holding significativa con un fatturato attorno a 1,6 miliardi di euro: al momento controlla Diesel, Marni, Maison Margiela, Viktor & Rolf e Staff International, un’azienda che produce abiti per Marc Jacobs, Just Cavalli e DSquared2. Stefano Rosso, amministratore delegato del gruppo (nonché figlio del fondatore Renzo Rosso), ha spiegato che «Non vogliamo diventare un’altra LVMH o Kering: il nostro obiettivo non è essere i più grandi, ma i più fighi. Crediamo di poter raddoppiare la nostra portata senza investimenti folli che ci costringono a cercare risorse finanziarie sul mercato. Per noi non è così facile come per i grandi gruppi francesi. La loro forza finanziaria è molto più grande, ma non aver bisogno di mostrare dei buoni numeri al pubblico e ai propri investitori ogni trimestre è un grande sollievo e ci permette di fare ciò in cui crediamo». Cosa che hanno fatto ad esempio con Marni, ultimo dei loro acquisti, che in pochi anni hanno trasformato in un brand competitivo nel mercato del lusso.