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  • Giovedì 15 ottobre 2015

Perché bisogna chiudere i CIE

Luigi Manconi e Valentina Brinis spiegano sul Manifesto perché i centri di identificazione ed espulsione degli stranieri irregolari sono diventati inutili e dannosi

Il Cie di Ponte Galeria, alla periferia di Roma. (Eric Vandeville/ABACAPRESS.COM)
Il Cie di Ponte Galeria, alla periferia di Roma. (Eric Vandeville/ABACAPRESS.COM)

Luigi Manconi, senatore del PD e attivista per i diritti umani, e Valentina Brinis, ricercatrice che collabora con la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, hanno spiegato sul Manifesto i motivi per cui bisognerebbe chiudere i CIE, i centri di identificazione ed espulsione degli stranieri irregolari. Secondo Manconi e Brinis, i CIE sono diventati inutili e dannosi, perché di fatto sono strutture dove la permanenza degli immigrati avviene in condizioni durissime e che viene prolungata per un tempo molto superiore rispetto a quello previsto dalla legge. Delle persone che vengono trattenute nei CIE, solo il 50 per cento viene poi riportato nel suo paese d’origine, per diverse ragioni (alcune riguardano l’impossibilità di identificare il loro paese di provenienza, per esempio). Manconi e Brinis sostengono che sia necessario trovare sistemi alternativi di trattenimento ed espulsione degli stranieri irregolari. Per leggere il Manifesto online è necessario registrarsi: è gratis.

I Cen­tri di iden­ti­fi­ca­zione e di espul­sione per stra­nieri irre­go­lari (Cie) sono non­luo­ghi pre­ci­pi­tati nello spa­zio ottu­sa­mente vuoto di un non­tempo. Forse le sedi più cru­deli di pri­va­zione della libertà pre­senti nel nostro Paese: ed è pro­prio per que­sta ragione che intorno alla loro natura e alle loro fina­lità, alle norme che li rego­la­men­tano e alle ini­quità che vi si con­su­mano, si gioca una par­tita dura, molto dura, dall’esito incerto, con­dotta su molti piani.

Uno di que­sti, tutt’altro che secon­da­rio, è quello giu­di­zia­rio. E da qui pro­viene, final­mente una buona noti­zia. Qual­che giorno fa, la Cas­sa­zione, con sen­tenza 18748/15, ha annul­lato il prov­ve­di­mento di trat­te­ni­mento nel Cie di Ponte Gale­ria, all’estrema peri­fe­ria di Roma. Prov­ve­di­mento a carico di un cit­ta­dino libico di etnia tua­reg impu­gnato dall’avvocato Ales­san­dro Fer­rara, col­la­bo­ra­tore dell’Associazione A Buon Diritto. Il periodo di per­ma­nenza all’interno di quel cen­tro era stato più volte pro­ro­gato, nono­stante la stessa auto­rità libica in Ita­lia si fosse da subito oppo­sta al rim­pa­trio, per­ché avrebbe espo­sto lo stesso trat­te­nuto «a un grave rischio per la pro­pria vita e inco­lu­mità».

Quelle stesse auto­rità ave­vano con­sta­tato, inol­tre, che l’impossibilità del rim­pa­trio costi­tuiva «una situa­zione per­ma­nente» e non tran­si­to­ria, che dun­que faceva venir meno anche la neces­sità del trat­te­ni­mento. Si tratta di una sen­tenza molto impor­tante che con­ferma la totale ina­de­gua­tezza di una misura come l’ingresso nel Cie per per­sone che, sin dal prin­ci­pio, si rive­lano ine­spel­li­bili. Ne sono un esem­pio tutti coloro che ven­gono trat­te­nuti più volte, anche sei o sette, senza che le auto­rità siano in grado di pro­ce­dere al rim­pa­trio per man­canza di indi­ca­zioni atten­di­bili sulla loro nazio­na­lità. Basti pen­sare ai rom pro­ve­nienti dalla Bosnia o dalla Ser­bia che non ven­gono rico­no­sciuti come cit­ta­dini di quei paesi a causa di pro­fondi cam­bia­menti geo­po­li­tici avve­nuti nel corso degli anni ’90. La con­di­zione di irre­go­la­rità, dif­fi­cile da sanare, li con­danna a ripe­tuti trat­te­ni­menti che si con­clu­dono sem­pre in un nulla di fatto.

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