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  • Mercoledì 30 settembre 2015

Come inizia Anna

Le prime pagine del primo capitolo del nuovo romanzo di Niccolò Ammaniti, che vedrete molto in giro

È uscito martedì Anna, il settimo romanzo di Niccolò Ammaniti e uno dei libri più attesi e importanti della stagione, in considerazione dei precedenti successi di Ammaniti e dell’investimento che l’editore Einaudi fa su questa uscita. Ne hanno scritto, contemporaneamente, Michele Serra su Repubblica (che ha anche pubblicato un testo dello stesso Ammaniti sull’ideazione della storia) e Marco Missiroli sul Corriere della sera. Il libro parla di ragazzi, come già Io non ho paura, Come Dio comandaIo e te, l’ultimo romanzo di Ammaniti, uscito cinque anni fa. Ma questa volta i ragazzi sono tutti orfani: un virus ha ucciso gli adulti, i cui cadaveri restano nelle case, nei centri commerciali, nelle auto abbandonate ai lati delle strade deserte. Anna è ambientato in una Sicilia devastata, dove i campi sono bruciati, le città disabitate, la vegetazione riprende possesso dello spazio, e bande di ragazzi sopravvissuti combattono con branchi di cani randagi per il poco cibo e acqua rimasti. Lo sforzo per sopravvivere si intreccia con la fatica di imparare le conoscenze che gli adulti non sono riusciti a lasciare. Ma è anche un mondo in cui, se si ha molta fortuna, si può trovare un barattolo di Nutella. L’Anna del titolo ha tredici anni e un fratellino, Astor, a cui racconta fiabe. Porta sulle spalle uno zaino pieno di cose, tra le quali una bottiglia di Amaro Lucano, un tubetto di latte condensato e il quaderno su cui sua madre prima di morire le ha lasciato scritto “Le Cose Importanti”. Prima di uscire, a volte, ci infila un doppio cd di Massimo Ranieri. È un romanzo cupo e avventuroso, sulla paura dei bambini di rimanere soli, e sulla paura dei grandi di non riuscire a insegnare niente di ciò che si è capito a chi verrà dopo.
Il primo capitolo comincia così.

***

Anna correva sull’autostrada stringendo le cinghie dello zaino che le rimbalzava sulla schiena. Ogni tanto girava la testa.
I cani erano ancora lí. Uno dietro l’altro in fila indiana. Sei, sette. Un paio piú malconci si erano persi per strada, ma quello grosso, davanti, si avvicinava.
Due ore prima li aveva scorti in fondo a un campo bruciato apparire e sparire tra le rocce scure e i tronchi anneriti degli ulivi, ma non ci aveva dato peso.
Le era già capitato di essere seguita da branchi di cani selvatici, ti venivano dietro per un po’, poi si stancavano e se ne andavano per i fatti loro.
Ma quando non li aveva visti piú aveva tirato un sospiro. Si era fermata a bere l’acqua che le restava e aveva ripreso a camminare.
Marciando le piaceva contare. Contava quanti passi ci volevano per fare un chilometro, contava le macchine blu e quelle rosse, contava i cavalcavia.
Poi i cani erano riapparsi.
Erano creature disperate, alla deriva in un mare di cenere. Ne aveva incontrati tanti, con i buchi nel pelo, i grappoli di zecche che gli pendevano dalle orecchie, le costole di fuori. Si sbranavano per i resti di un coniglio. Gli incendi dell’estate avevano bruciato la pianura e c’era rimasto poco o niente da mangiare.
Superò una fila di automobili con i vetri sfondati. Erbacce e grano crescevano intorno alle carcasse coperte da uno strato di cenere.
Lo scirocco aveva spinto le fiamme fino al mare e aveva lasciato dietro di sé un deserto. La striscia di asfalto dell’A29, che univa Palermo a Mazara del Vallo, tagliava in due una distesa morta da cui si sollevavano gli spunzoni anneriti delle palme e qualche pennacchio di fumo. A sinistra, oltre i resti di Castellammare del Golfo, uno spicchio di mare grigio si impastava con il cielo. A destra una fila di colline basse e scure galleggiavano sulla pianura come isole lontane.
La carreggiata era ostruita da un camion rovesciato. Il rimorchio aveva disintegrato lo spartitraffico e lavandini, bidè, gabinetti e schegge di ceramica bianca erano sparsi per decine di metri. La ragazzina ci passò in mezzo.
La caviglia destra le faceva male. Ad Alcamo aveva aperto a pedate la porta di un alimentari.

E pensare che fino ai cani era andato tutto per il verso giusto.
Era partita che era ancora buio. Ogni volta era costretta ad allontanarsi di piú per cercare da mangiare. Prima era facile, bastava andare a Castellammare e trovavi quello che volevi, ma gli incendi avevano complicato tutto. Aveva marciato per tre ore sotto il sole che montava in un cielo slavato e senza nuvole. L’estate era finita da un pezzo, ma il caldo non mollava. Il vento, dopo aver attizzato il fuoco, era sparito come se quella parte di creato non gli interessasse piú.
In un vivaio, accanto a un cratere lasciato da una pompa di benzina esplosa, aveva trovato uno scatolone pieno di cibo sotto dei teloni impolverati.
Nello zaino aveva sei barattoli di fagioli Cirio, quattro di pelati Graziella, una bottiglia di Amaro Lucano, un grosso tubetto di latte condensato Nestlé, un pacco di fette biscottate rotte ma ancora buone da sciogliere nell’acqua e una confezione da mezzo chilo di pancetta sottovuoto. Non aveva resistito, la pancetta se l’era mangiata subito, in silenzio, accovacciata sopra i sacchi di terriccio impilati sul pavimento coperto di escrementi di topo. Era dura come cuoio e cosí salata che le aveva arso la bocca.

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