• Moda
  • Lunedì 10 agosto 2015

I costumi da bagno molto interi e le religioni

Diversi brand di abbigliamento vecchi e nuovi stanno investendo sempre di più nel soddisfare la domanda di moda dei fedeli più integralisti

di Enrico Matzeu – @enricomatzeu

STAN HONDA/AFP/GettyImages
STAN HONDA/AFP/GettyImages

Secondo un articolo del Wall Street Journal – nella sua sezione dedicata alle attività imprenditoriali più inventive – si stanno diffondendo negli Stati Uniti società e brand che producono e vendono costumi da bagno “coprenti” – li chiamano “modest swimwear” – composti per esempio da pantaloni lunghi e una blusa a maniche corte, che ricordano un po’ la muta dei surfisti un po’ una rivisitazione moderna dei costumi pudichi di un secolo fa. L’idea può sembrare una stranezza di poco conto, ma in realtà fa parte di un nuovo business, rivolto in particolare alle esigenze delle religioni più conservatrici. Tra le varie aziende che se ne occupano da alcuni anni c’è HydroChic un marchio di costumi creato da Sara Wolf, nato in particolare per venire incontro alla domanda delle donne ebree ortodosse, che non possono scoprire braccia e gambe, neanche al mare. A Wolf l’idea è venuta vedendo delle donne ebree indossare sulle spiagge del New Jersey delle gonne in jeans lunghe fino alle caviglie, anche per andare in acqua.

In giro per internet si trovano poi molti altri siti di e-commerce interamente dedicati alla vendita di costumi da bagno “molto interi”. Tra le sezioni di Undercover Waterwear, una start up fondata a Brooklyn da Rachel Tabbouche assieme con la madre e la sorella, si possono acquistare vari costumi di questo genere: tuniche, gonne e leggings da portare con maglie a maniche lunghe, tutti capi fatti con gli stessi materiali dei costumi tradizionali, che quindi si possono bagnare e asciugare velocemente.
Il target di riferimento principale di questi siti sono ancora le donne ebree ortodosse (anche se alcuni stanno puntando anche al mercato delle taglie forti, che ha differenti richieste nella stessa direzione), ma costumi coprenti ci sono anche su siti rivolti a clienti musulmane come EastEssence, dove si possono trovare invece i burquini, costumi che devono coprire anche la testa.

La moda ha iniziato ad aprirsi alle religioni più conservatrici, individuando il business offerto dal numero elevato di potenziali clienti in tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti per arrivare al Medio Oriente. Ma ben nove milioni di musulmani vivono negli Stati Uniti e il loro potere di spesa si aggira secondo una ricerca attorno ai 100 miliardi di dollari annui, e sono quindi una forza economica notevole. Questi dati devono essere stati presi in considerazione, visto che il New York Times riporta come quest’anno in occasione del Ramadan – il mese sacro della religione islamica che si è svolto dal 18 giugno al 17 luglio – molti brand del lusso più consolidati abbiano creato delle linee di abiti rivolti alle donne musulmane. È il caso, ad esempio, di Tommy Hilfiger che ha messo in vendita una capsule collection di undici pezzi disponibili nei suoi negozi del Medio Oriente. La stessa cosa ha fatto DKNY, creando abiti a maniche lunghe, pantaloni e bluse coprenti. Per la prima volta anche i portali di e-commerce di lusso, come Net-a-Porter e Moda Operandi hanno creato delle apposite sezioni dedicate al Ramadan, che raccoglievano tutti i vestiti adatti alle donne musulmane. Holly Russell, la responsabile degli acquisti di Net-a-porter ha detto al New York Times che «questo è il primo anno che ci rivolgiamo al Ramadan in modo così diretto e ancora non abbiamo valutato quale impatto possa avere». I feedback sui social network e poi negli acquisti sono stai però positivi. La cosa è andata anche oltre l’abbigliamento e Armani/Dolci ha messo in vendita nei suoi negozi dei paesi arabi confezioni di cioccolatini senza alcol.

Come riportava già nel 2012 l’istituto di ricerche Euromonitor International, negli ultimi anni il Ramadan per i musulmani e paragonabile – in termini di acquisti – al Natale cristiano. Questo significa che, come per i cristiani le feste di Natale sono diventate l’occasione per farsi regali e spendere, anche per il musulmani il Ramadan sta avendo una deriva consumistica.

In un lungo articolo su Racked, Fareeha Molvi, un’autrice musulmana cresciuta nel sud della California, si domanda se il capitalismo e il consumismo possano essere la risposta per la normalizzazione dell’Islam negli Stati Uniti. Molvi ricorda, ad esempio, che con la legalizzazione dei matrimoni omosessuali in America, l’industria dei matrimoni ha incrementato il giro d’affari di circa 2,5 miliardi di dollari, o che al contrario in passato le sanzioni economiche internazionali al Sud Africa hanno contribuito a far finire l’apartheid. In sostanza per Fareeha Molvi se da una parte il marketing può indebolire spiritualmente il mese sacro, dall’altra rafforza il livello di accettazione nella società. E ricorda che quando era piccola, negli anni Novanta, il Ramadan si festeggiava in famiglia e nessuno al di fuori della comunità islamica sapeva cosa fosse o in cosa consistesse e ha notato che dopo gli attentati a New York dell’11 settembre 2001 l’attenzione (sospettosa) per il mondo musulmano è cresciuta improvvisamente e se «da una parte gli opinionisti e i commentatori tivù hanno speso molto del loro tempo per metterci in guardia sui pericoli del fatto che da qui al 2050 l’Islam sarà la seconda religione più praticata in America, un altro settore ha iniziato a prestarci una diversa attenzione: i venditori.»