Il problema degli abusi del carcere

Sono tanti, scrive Michele Ainis, per colpa di un'opinione pubblica ignorante e di una politica debole

Il carcere di Regina Coeli, a Roma. ANSA/ UILPA PENITENZIARIA
Il carcere di Regina Coeli, a Roma. ANSA/ UILPA PENITENZIARIA

Michele Ainis, sul Corriere della Sera di domenica 19 luglio, ha scritto un lungo articolo per parlare del problema delle carceri in Italia: ci costano moltissimo (3 miliardi di euro l’anno), funzionano peggio di quelle degli altri paesi europei (il tasso di recidiva è molto alto) e continuano a violare i diritti dei detenuti (il sovraffollamento è ancora al 118 per cento). Ainis racconta la storia dell’intellettuale Giulio Salierno, che passò 13 anni in carcere per un omicidio del 1952 e ne uscì dopo essersi diplomato e laureato e come uno dei più importanti intellettuali del tempo, che si era dedicato per anni all’avanzamento dei diritti dei carcerati. Il carcere, dice Ainis, può dunque anche funzionare, ma non se usato come viene fatto in Italia per metterci «reietti, immigrati, tossicomani, poveri, tutto il caleidoscopio della marginalità sociale» senza che siano considerate pene alternative alla detenzione. Un atteggiamento, conclude Ainis, che esiste « per pressione dell’opinione pubblica e per la debolezza della politica. Infatti dopo Tangentopoli è montata un’onda giustizialista, che i nostri politici non hanno saputo governare».

Le carceri italiane violano la Costituzione: non recuperano il detenuto, lo diseducano e la politica rincorre gli umori giustizialisti. Per i penitenziari spendiamo circa tre miliardi l’anno, più degli altri Paesi europei, ma con pessimi risultati.

La persistenza dell’ergastolo, la promiscuità fra colpevoli di piccoli reati e criminali incalliti, l’eccesso di leggi penali: ecco i capitoli di un fallimento nazionale. “Abolire il carcere?”. Più che una domanda, parrebbe una bestemmia. Oppure un delirio, il vaneggiamento utopico di chi progetti un mondo senza delitti e senza guerre.

Ma in un volumetto appena pubblicato da Chiarelettere questa domanda si converte in un imperativo, in un’indicazione perentoria. Anzi: gli autori (Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta) vi si riferiscono come a una proposta “ragionevole”, in grado di rendere più sicura la vita dei cittadini, non meno sicura.

Non sono i primi a immaginare l’impossibile. La medesima proposta fu anche di Giulio Salierno, intellettuale oggi un po’ dimenticato, ma di cui certamente si ricordano quanti vissero i nostri ruggenti anni Settanta. Salierno scrisse il primo libro- documento sulla condizione carceraria (Il carcere in Italia, con Aldo Ricci, 1971), pubblicato da Einaudi nella collana diretta da Elio Vittorini: il “Nuovo Politecnico”, con quel francobollo rosso che la rendeva inconfondibile. Un saggio e insieme una testimonianza, uno spaccato di vita vissuta.

Per raccontare il carcere, possiamo innanzitutto raccontare quella vita. Salierno era nato a Roma nel 1935, da una famiglia di militari e di burocrati. Crescendo a Colle Oppio, che a quel tempo costituiva un’enclave fascista, gli venne naturale diventare fascista a propria volta. Sicché nel 1952 è segretario della sezione giovanile del Msi; si trova coinvolto in pestaggi, scontri di piazza, piccoli attentati contro le sedi del Partito comunista; frequenta Evola, ammira Borghese, Almirante, Graziani. A 18 anni progetta l’azione esemplare: uccidere Walter Audisio, alias colonnello Valerio, che si era assunto la responsabilità dell’esecuzione di Benito Mussolini.

Insieme a un altro, una notte cerca di rubare un’automobile, per servirsene poi nella sua impresa. C’è a bordo una coppia di fidanzatini; lui reagisce; Salierno (o forse l’altro) spara. Un omicidio assurdo, come quelli descritti da Camus. A quel punto fugge a Lione, per arruolarsi nella Legione straniera, garanzia d’impunità. Però a Sidi-Bel-Abbès viene catturato dall’Interpol, ed è il primo arresto effettuato nella Legione dopo 153 anni. Perciò Salierno sperimenta le celle algerine: due metri per un metro, con un’altezza d’un metro e 60, sicché non puoi starci in piedi; e là fuori il deserto, la sabbia arroventata.

Fra gli altri prigionieri, le prime cellule del Fronte di liberazione nazionale, che in capo a pochi anni restituirà l’indipendenza all’Algeria. Lui solidarizza con quei giovani arabi, ne comprende le ragioni. Un moto umano, prima che politico; lo stesso sentimento che poi riversa sui detenuti delle carceri italiane, dopo la condanna a 30 anni per omicidio a scopo di rapina. Si consuma così la sua conversione. Mentre girovaga per 22 penitenziari, Salierno legge di tutto, prende un diploma da geometra, è il primo detenuto a iscriversi all’università; e diventa comunista. In prigione, a Perugia, scrive un libro (La spirale della violenza); studia i regolamenti carcerari, pretendendone il rispetto; s’erge a paladino dei diritti dei detenuti. Nel 1968, dopo 13 anni di galera, viene graziato da Saragat per i suoi meriti di studioso.

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