• Mondo
  • Domenica 12 luglio 2015

La giornata di sabato a Srebrenica

L'aggressione al primo ministro serbo, il contesto, e il suo significato, nella cronaca di Adriano Sofri su Repubblica

Lo striscione che dice "Per ogni serbo ucciso uccideremo cento musulmani", frase attribuita a Aleksandar Vucic, mostrato durante la cerimonia di sabato (AP Photo/Marko Drobnjakovic)
Lo striscione che dice "Per ogni serbo ucciso uccideremo cento musulmani", frase attribuita a Aleksandar Vucic, mostrato durante la cerimonia di sabato (AP Photo/Marko Drobnjakovic)

Adriano Sofri era a Srebrenica per le cerimonie del ventennale dalla strage del 1995, e ha raccontato su Repubblica domenica sia la concitazione e il valore dell’aggressione al primo ministro serbo Vucic, che il contesto più esteso in cui la giornata si è tenuta.

Nel momento in cui la cosa sta succedendo, pensi: ecco, questa è una tragedia. Nel giorno più sbagliato, nel posto più sbagliato. I discorsi ufficiali sono finiti, al riparo dalla gran moltitudine, dall’altro lato della strada. Precedendo altri ospiti, il primo ministro della Serbia, Aleksandar Vucic, viene incautamente fatto passare in un lungo sentiero che dall’ingresso del grande camposanto sale fino alla tribuna allestita per le autorità, dalla quale assisteranno alla tumulazione dei 136 corpi appena ricomposti. La folla lo riconosce, lo subissa di fischi e di insulti, e subito dopo, dai bordi del percorso protetto dalle guardie del corpo, l’aggressione: lancio di bottiglie, sassi, scarpe, colluttazioni furibonde. Continua così fino alla sommità della pendice sulla quale è disteso il cimitero, quando Vucic viene fatto scomparire nella macchia, mentre i suoi tutori sbrigano gli ultimi corpo a corpo. Intanto i fischi e gli urli scompagnati della folla si sono raccolti nel grido corale di “Allah’o akbar”.
Per i bosgnacchi, che non sono un’etnia, ma una diramazione religiosa dentro l’unico popolo jugoslavo, l’islam può significare una rivendicazione patriottica, ma quello è un grido religioso. Sono pochi, nella enorme folla, a non unirsi. Eppure è assente dalla folla qualsiasi segno di islamismo militante, che pure il frangente poteva far temere.
Vucic ha 45 anni, una svelta carriera nell’ala più ignobile del nazionalismo serbista, un ruolo di ministro con Milosevic, poi una riconversione verso l’Europa, e la sconfessione graduale dei deliri della Grande Serbia e dell’entusiasmo per Ratko Mladic –il boia di Srebrenica. Uno striscione inalberato nel cimitero cita una frase del Vucic della prima maniera: “Za jednog srbina, ubit cemo 100 muslimani” –per un serbo, uccideremo 100 musulmani. Alla vigilia Vucic aveva detto cose apprezzabili, spiegando la propria decisione di venire: che «non ci sono parole per definire quel crimine mostruoso», e che «andare a rendere omaggio alle vittime degli altri è una condizione perché gli altri vengano dalle nostre». Ancora alla vigilia, aveva ottenuto da Putin il rigetto della definizione del “crimine mostruoso” come genocidio, nel Consiglio di Sicurezza.

(continua a leggere sul sito Diritti Globali)