Lo scherzo telefonico a Fabrizio Barca non era giornalismo

Il Tribunale Civile di Milano ha condannato la trasmissione radiofonica "La Zanzara": attribuirsi l'identità di un'altra persona per ottenere informazioni è illegale

Fabrizo Barca, nel 2012 (Mauro Scrobogna /LaPresse)
Fabrizo Barca, nel 2012 (Mauro Scrobogna /LaPresse)

Il tribunale di Milano ha deciso che lo scherzo telefonico del 17 febbraio fatto a Fabrizio Barca dalla trasmissione radiofonica La Zanzara non è giustificabile da finalità giornalistiche e ha ottenuto informazioni riservate in maniera illecita: tutte le registrazioni audio di quell’intervista dovranno quindi essere eliminate.

La Zanzara è un famoso programma radiofonico di Radio 24 che va in onda dal lunedì al venerdì, dalle 18.30 fino circa alle 21 ed è condotto dal giornalista Giuseppe Cruciani, in collaborazione col giornalista David Parenzo. Il 17 febbraio 2014 La Zanzara ha fatto uno scherzo telefonico in cui un imitatore di Nichi Vendola, leader di SEL, ha telefonato – spacciandosi per il vero Vendola – a Fabrizio Barca, ex ministro del governo Monti e membro del Partito Democratico dal 2013. Non sapendo di parlare con un imitatore di Vendola (e non sapendo che la chiacchierata sarebbe stata trasmessa in radio), Barca ha espresso quel giorno molte opinioni personali su Matteo Renzi e sul governo che in quei giorni stava formando.

In questi giorni si è parlato di Barca perché ha presentato una relazione sullo stato di salute del Partito Democratico a Roma, a seguito dell’inchiesta chiamata “Mafia Capitale“. Nel febbraio del 2014 Barca era invece, secondo i principali giornali italiani, uno dei candidati a diventare ministro delle Finanze del governo Renzi, nato il 22 febbraio di quell’anno. Nell’intervista all’imitatore di Vendola, Barca aveva confermato di essere uno dei candidati a guidare quel ministero, dicendo però di non essere interessato al ruolo e argomentando la sua opinione.

Confidandosi con quello che credeva essere il vero Vendola Barca aveva detto, parlando del governo Renzi che stava nascendo: «Non c’è un’idea, c’è un livello di avventurismo, siamo agli slogan». Barca aveva anche detto, riferendosi a chi gli chiedeva di entrare in quel governo: «Non possono pretendere che le persone facciano violenza ai propri metodi, ai propri pensieri, alla propria cultura». Barca aveva poi spiegato di non voler far parte di un governo di cui non apprezzava la genesi, e con cui non condivideva la linea politica, aggiungendo poi di non aver gradito che un imprenditore (Carlo De Benedetti, presidente del Gruppo Editoriale l’Espresso) facesse pressioni su di lui (un politico) affinché entrasse in un governo. De Benedetti aveva risposto negando quanto detto da Barca: «Non mi occupo di nomine politiche perché non è il mio mestiere. Ho sempre rispettato l’autonomia della politica».

Seppur molto discussa per i suoi metodi, la chiacchierata tra Barca e il finto Vendola era stata ripresa da tutti i giornali perché conteneva rilevanti informazioni su dinamiche, trame e meccanismi che circondano la formazione di un governo. Seppur senza sapere che le sue parole sarebbero diventate “pubbliche”, in quella telefonata Barca faceva poi una buona figura: si mostrava coerente e disinteressato a un ruolo che, anche se importante, non voleva ricoprire per un governo di cui non condivideva le idee.

Barca – insieme con il Garante per la protezione dei dati personali – aveva deciso di fare causa aLa Zanzara, che si era difesa sostenendo che senza l’inganno del finto Vendola sarebbe stato “impossibile l’esercizio della funzione informativa”. Secondo La Zanzara lo scherzo telefonico era giustificato dal suo fine, dalla necessità di ottenere informazioni di pubblica rilevanza. Il giudice del Tribunale Civile di Milano ha però detto che «la radio non ha spiegato perché queste informazioni non avrebbero potuto essere svelate attraverso una inchiesta condotta nel rispetto dei principi di correttezza», decidendo che la privacy di Barca era, in quel caso, più importante dell’interesse giornalistico a violarla. Il giudice ha spiegato che attribuirsi “l’identità di un’altra persona […] allo scopo di ottenere informazioni riservate” va contro le norme e ha commentato così la sua decisione, riportata dal giornalista Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera:

L’interesse pubblico alla conoscenza di fatti di rilievo collettivo va tutelato e perseguito nel rispetto del trattamento dei dati personali, e non può rappresentare un’esigenza superiore in nome della quale acquisire e trattare dati personali in spregio delle regole che disciplinano l’attività giornalistica