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  • Martedì 26 maggio 2015

Non scendete a Napoli

Il nuovo libro di Antonio Pascale, una “controguida appassionata alla città”

Rizzoli ha pubblicato il libro Non scendete a Napoli di Antonio Pascale, giornalista e scrittore, autore fra l’altro di La manutenzione degli affetti e Le attenuanti sentimentali, e blogger del Post. Il libro è, come spiega anche il sottotitolo, una “controguida appassionata alla città”, in cui Pascale prima cerca di convincere i visitatori a limitarsi a osservare Napoli dall’alto, da Castel Sant’Elmo, senza cadere nelle “sabbie mobili non segnalate” in agguato in città, per poi scendere a descrivere luoghi inusuali e meno conosciuti, che diano un’immagine della città che si discosti da quelle degli stereotipi classici, e che anzi faccia capire come Napoli non sia poi così diversa dal resto d’Italia.

In questo estratto Pascale spiega la tendenza (che si può estendere ben oltre Napoli) a non fare: a “stare fermi sullo scoglio”.

***

Io li ho letti i primi viaggiatori, come Stendhal: i suoi diari napoletani (tra il 1811 e il 1828) raccolgono testimonianze oculari e impressioni sul Sud costruite integrando racconti di altri viaggiatori (stranieri, meridionali, centrosettentrionali) e alla fine di questo percorso conoscitivo cosa veniva fuori? Che da una parte c’erano gli uomini del Nord, dall’altra quelli del Sud, questi ultimi distinti da una qualità: liberi dalla civiltà, conoscevano l’autenticità (in quanto energici, schietti) e quella bonheur che gli ultracivilizzati europei avevano perso.

E dove mai avrò letto quel consiglio ai piloti dell’aviazione civile di parlare ai passeggeri, per non spaventarli, con il tono di un uomo del Sud, caldo, colloquiale, sincero, in opposizione al tono dell’uomo del Nord, freddo, robotico, meccanico?

Me lo sono sognato questo consiglio? Non trovo la fonte, ma nella mia memoria il tono caldo serve a tranquillizzare, perché sprizza autenticità, quello robotico, infatti, tipico del Nord, mette paura.

Me lo sono sognato, può darsi, eppure devo averlo letto, perché per qualche tempo, in aereo, ho prestato attenzione ai toni, se ne riconoscevo uno da uomo del Sud, mi agitavo un po’. Mi chiedevo, perché mi vuole tranquillizzare? C’è un pericolo a bordo? C’è un sottotesto nel suo annuncio? Mica con la scusa dell’autenticità non mi dicono la verità?

Li ho sentiti seri intellettuali sostenere che Napoli ha un cuore grande. Durante il terremoto, per esempio, giurano che il suddetto organo fosse visibile, tangibile: il cuore pulsante dei napoletani. Che si aiutavano, si scambiavano, all’occorrenza, cibo e vestiti. Io li ho sentiti, e mai mi sarei aspettato considerazioni simili, quindi sono anch’io a rischio, sì, anch’io che faccio notare l’importanza dell’analisi e della comparazione: rispetto a quale città colpita da terremoto o catastrofe Napoli è risultata più generosa? Perché quelli del Belice non devono essere ugualmente generosi in caso di disgrazia? E gli emiliani?

Io sono a rischio, per questo resto qui sopra. Sotto c’è una palude che nega la storia, un paradiso che tanti vedono, o un inferno da cui tanti fuggono, ma entrambi fanno parte della stessa storia. La diversità! Sì, il tono caldo e sincero, in opposizione a quello robotico e meccanico.

Vero: sembrano categorie pittoresche e dunque facilmente riconoscibili e innocue, perché perderci tanto tempo?

Tuttavia presentano, e questo è il pericolo, una serie di declinazioni più difficili da cogliere, più raffinate nell’eloquio, ma che, in sintesi, partono dalla stessa matrice, la diversità appunto.

Se siamo diversi, siamo anche superiori, toccati da uno spirito che ci rende tali, il mare sconfigge i rifiuti. O, se siamo diversi e magari peggiori, è solo perché altri ci hanno espropriato l’originaria autenticità.

Una palude culturale. Sono cresciuto sui bordi. Fin dalla più tenera età.

Uno zio napoletano mi raccontò la seguente storiella. Un milanese – sì, la figura del milanese è una macchietta ricorrente nell’immaginario napoletano (una volta ho sentito un intellettuale napoletano dire a un Giorgio Bocca, che era di Cuneo, vabbe’, fatti una risata quando vieni a Napoli) – questo milanese, infervorato e produttivo, incontra un pescatore che, invece di uscire per mare, sta sugli scogli a prendere il sole. Perché non esci a prendere i pesci? chiede il milanese (in giacca e cravatta, così lo descriveva mio zio). Il pescatore risponde (apre appena gli occhi per incrociare lo sguardo di questo milanese supponente): e dopo che faccio? Dopo vendi il pescato e ti compri una barca più grande. E dopo? – sempre il pescatore. E dopo prendi più pesci, assumi anche dei pescatori, così che ti aiutano nella pesca. E dopo? Dopo prendi più pesci, li vendi, compri più barche, metti su una flotta e diventi il re dei pescatori. E dopo? Dopo ti compri una bella casa, proprio qui a via Caracciolo sul mare (mio zio ambientava la storia nei pressi di Castel dell’Ovo) e lasci che gli altri pescatori vadano al tuo posto e lavorino per te. E dopo? E dopo (risponde il milanese paonazzo, ricordiamoci che sta con la giacca e cravatta), dopo ti riposi. Pausa di mio zio… Tutti noi bambini ad ascoltare con la bocca aperta. E il pescatore risponde: e adesso, cosa sto facendo?

La storiella produceva in noi ragazzini un senso di superiorità. Eravamo più furbi, in anticipo sui tempi, conoscevamo, evidentemente, una scorciatoia che ci portava al traguardo.

Così, mentre i milanesi mettevano su le industrie con il solo scopo di rivolgere domande stupide al pescatore di via Caracciolo, noi napoletani sornioni chiudevamo gli occhi e ci godevamo il sole e il mare, un binomio che sconfigge ogni complicata nonché noiosissima procedura amministrativa, come la raccolta dei rifiuti. Almeno a sentire quell’alto rappresentante delle istituzioni che sui rifiuti voleva tagliare corto, tanto noi qua abbiamo il mare.

Storielle come queste erano poi discusse in famiglia, durante le cene con parenti e amici. La morale del suddetto racconto pedagogico era semplice: noi napoletani siamo diversi, e non pensiamo certo ai beni superflui, siamo saggi, andiamo all’essenziale, poche cose e buone; non ci imbarchiamo in avventure per raggiungere isole che non ci sono, la nostra isola è reale, si chiama Napoli, o gli scogli di Napoli.

Le discussioni trovavano d’accordo tutti, la storiella – che raccontavamo, a mo’ di mantra, orgogliosi del nostro prodotto tipico – diventava uno scudo dal quale ci sentivamo protetti.

Un club di saggi, parsimoniosi, anticonsumisti, ecco cosa eravamo noi napoletani, e se c’era qualcosa da scambiare, non erano stupidi oggetti superflui, no, noi siamo gente di cuore.

Durante queste serate a base di storielle, cominciavamo a parlare anche in dialetto, limitavamo l’accesso ai non napoletani, ci davamo pacche sulle spalle, ci stringevamo a coorte, insomma, quando Napoli chiama, noi rispondiamo: sì!

Poi un giorno leggo un’altra storia (in Peter Jones, Breve storia di Roma): quando nel 280 a.C. il popolo di Taranto chiese allo stimatissimo re dell’Epiro Pirro di aiutarlo a cacciare i Romani dal Sud Italia, il suo saggio consigliere Cinea gli domandò cosa avrebbe fatto in caso di vittoria.

«Che diamine» rispose Pirro, «conquisterei la Sicilia.»

«E poi?»

«Prenderei la Libia e Cartagine.»

«E quindi?»

«Riconquisterei la Macedonia e la Grecia.»

«E dopo?»

«Ce ne staremo tranquilli e ogni giorno berremo e ci diletteremo discorrendo» rispose Pirro.

«Ma se lo scopo ultimo di tanti sforzi è questo» replicò Cinea, «cosa ci impedisce di goderci già ora la tranquillità? Possiamo farlo subito, senza spargimenti di sangue, senza la fatica e i rischi che tu proponi, che implicheranno danno per i nemici e tante sofferenze per noi.»

Si narra che Pirro, pur comprendendo il punto di vista di Cinea, ammise che non sarebbe riuscito a rinunciare alle proprie ambizioni.

Ecco, il genio che ancora aleggia in questa speciale categoria culturale (la napoletanità) era riuscito a trasformare una storiella pacifista – perché spargere tanto sangue per arrivare là dove siamo già ora – in un inno al non spargete sudore, statevene sullo scoglio.

La morale della storiella minava le fondamenta dello sviluppo economico moderno e condannava il nostro immaginario a restare in un’epoca d’oro: se il sole è dorato, gli scogli riflettono il sole, il mare luccica, perché desiderare di muoversi? Se su Napoli piove una luce affascinante e magica, perché abbandonarla? E comunque per onorare il carpe diem c’era sempre una teoria di supporto: lo vedete il Vesuvio? Anche se in alcuni posti della città non si vede, il vulcano c’è, eccome (violaceo al tramonto, scuro con una cresta di cumulonembi nelle giornate di maltempo), e si sente. L’aria di apocalisse si respira sempre, e allora, ammesso che costruissimo qualcosa di utile (anche se non bello e tantomeno memorabile), a che servirebbe?

Domani potrebbe esplodere tutto: una semplice fatalità, un millenario – e tutto sommato ordinario – movimento di placche, roba di banale tettonica e, insomma, ecco la pressione sotterranea dei gas spingere tonnellate e tonnellate di materiale lavico in superficie e ceneri e lapilli come una cappa sopra tutta Napoli, e allora addio alle cose utili, e allora viva lo scoglio e il fatalismo.

A ogni teoria che supporta e nobilita il carpe diem corrisponde, per completare il quadro e puntellare il tutto, anche una versione comica della suddetta, come per esempio quella che racconta dello stupore dell’astronauta della Stazione internazionale che, trovandosi a sorvolare il Vesuvio e l’Etna (440 chilometri), avrebbe prima fotografato i due vulcani e poi commentato in chiosa: sono rimasto stupito dal notare le luci delle case che salgono fino alla cima: ma non sono vulcani ancora attivi?

Diciamo che lo stupore dell’astronauta diventa nel tono di chi riporta la storiella – nonché, istantaneamente, nella ricezione – materia comica, mattoni per costruire teorie di pari ordine e grado: ecco perché i napoletani stanno sullo scoglio, non avete visto la quantità di processioni e rituali pagani e cristiani che avvengono intorno al Vesuvio? Tutti a studiare e documentarsi mentre le case abusive vengono su alla stessa stregua delle teorie antropologiche.