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  • Lunedì 23 marzo 2015

Giovanni Allevi e io

Saturnino ha scritto un libro sulle persone che ha incontrato facendo il musicista da trent'anni: parla bene di quasi tutte

Stefano De Grandis/Lapresse

milano 20/11/2013



Red carpet cena di gala 10 anni fondazione Milan

nella foto: Saturnino con signora
Stefano De Grandis/Lapresse milano 20/11/2013 Red carpet cena di gala 10 anni fondazione Milan nella foto: Saturnino con signora

Saturnino Celani, bassista, compositore e musicista noto col semplice nome di Saturnino (che è il suo vero nome di battesimo, come spiega all’inizio del suo racconto) ha scritto un libro – “Testa di basso“, editore Salani, insieme a Massimo Poggini – sulla sua storia nella musica, le molte cose che ha fatto e soprattutto le persone che ha incontrato. Jovanotti, con cui collabora intensamente da tantissimi anni, è probabilmente quella più importante, ma il libro è pieno di gente, impressioni, brevi ritratti, in cui sono trattati tutti con la stessa curiosità, da Sting – conosciuto da Saturnino quando era giovanissimo – a Sergio ed Efisio, gestori di un popolare chiosco bar milanese vicino alla Rai e a Radio Deejay (e al Post, peraltro). Tra i vari personaggi raccontati c’è a un certo punto anche Giovanni Allevi – pianista che ha poi trovato una grande fama e popolarità avendo iniziato proprio con Jovanotti e Saturnino – e a cui Saturnino rimprovera versioni pubbliche della storia a suo dire non molto affidabili.

Giovanni e io abbiamo iniziato a suonare da piccoli, prima ancora di andare allo Spontini. Suo padre, Nazareno, insegnava musica a scuola, suonava il clarinetto ed era direttore della banda. Sua madre cantava. Sua sorella Stella suonava il pianoforte. E suo cognato suonava il clarinetto nella banda. Quindi è nato e cresciuto in una famiglia di musicisti e quando racconta che i suoi genitori gli vietavano di fare musica non dice il vero. Del resto Giovanni ogni tanto le spara grosse, raccontando i fatti a modo suo e non come sono andati realmente.
Comunque, noi siamo cresciuti insieme, ma poi ci siamo persi di vista, perché io a diciotto anni sono partito per Milano, mentre lui è rimasto ad Ascoli Piceno. Qualche tempo dopo mi scrisse una lettera, che non ho mai fatto leggere a nessuno e che conservo in un libro stupendo (All You Need to Know about the Music Business di Donald S. Passman) per evitare di prendere altre fregature. Iniziava con un ‘Caro Nino’ e si firmava ‘Chico’, come lo chiamava sua madre. Mi chiedeva di ascoltare e di segnalare a qualcuno il materiale che mi aveva mandato con un VHS. Scriveva già cose sue e il suo obiettivo era incidere la sua musica, così mostrai quella cassetta a Lorenzo.

Avevamo appena visto il film Shine, che racconta la storia di David Helfgott, un pianista molto talentuoso. Vedendo quel ragazzo che suonava in giacca e cravatta e che all’epoca aveva i capelli corti, Lorenzo disse che gli ricordava molto il protagonista del film: « Sai che non è male? Ha qualcosa di interessante. Lo metto sotto contratto con la Soleluna. Però te ne occupi tu. Organizza le sessioni di registrazione e costruisci tutto a tuo gusto personale».
Già allora Giovanni sapeva il fatto suo, era un tipo attento e determinato, cose che gli fanno onore. Essendo la sua prima esperienza, in sala non si faceva sfuggire nemmeno un particolare. Infatti lo chiamavo ‘Il piccione’, perché per lui qualsiasi cosa era una novità.
La registrazione la organizzai in economia, perché non mi piace approfittare degli altri. Sono molto leale, e questo Lorenzo lo sa bene, altrimenti non sarei al suo fianco da oltre vent’anni. Tutti quelli che hanno provato a lucrare sulla sua persona sono rimasti un paio d’anni, hanno fatto le loro rapine e poi sono stati costretti ad andarsene.
Ma anche lavorando in economia, a Giovanni detti il meglio. Per affittare lo strumento, uno Steinway, chiamai la buonanima di Antonio Griffa: era l’accordatore del pianoforte di Arturo Benedetti Michelangeli.
Avevo chiesto a Maurizio Maggi, un fonico straordinario, di curare i suoni. Lui declinò l’incarico per mancanza di tempo. Però venne comunque a fare il suono del pianoforte: così ci raggiunse al Jungle Sound e posizionò i microfoni (detto per inciso, non chiese il becco d’un quattrino: di questo gli sarò grato in eterno). Sistemato quello, il gioco era fatto, in pratica non serviva altro.
Lo stesso Fabrizio Rioda, che ai tempi era il proprietario dello studio, si dette un gran da fare per aiutarci. Ricordo che una volta scesero gli Articolo 31, che stavano facendo le prove al piano di sopra. Dj Jad si mise ad ascoltare e, mentre si faceva una canna, disse: « Mi piace questo disco, mi piace ».
Insomma, questo è il contesto in cui è nato 13 dita, il primo album di Giovanni Allevi. Titolo di Lorenzo, così come la copertina. Tutti gli altri titoli invece sono miei. Per lui erano solo sonate: Sonata numero uno, Sonata numero due… Aveva l’atteggiamento più conservatore del mondo. Fui io a dirgli che avrebbe dovuto trovare dei nomi che consentissero all’ascoltatore di identificare i vari brani, dare dei titoli che facessero sognare, immaginare, che fossero di cornice a un pezzo strumentale.

Contala giusta, Giuanin!
Giovanni era convinto che tutti volessero fregarlo. Così, dopo il secondo album, Jovanotti gli dette la liberatoria senza nulla pretendere. Anche se nel periodo in cui Allevi è rimasto con Soleluna è stato fatto molto per lui: aveva partecipato all’incisione di Quinto mondo, firmando diversi brani come coautore e arrangiandone altri. Inoltre gli avevamo fatto fare un bel po’ di concerti, poi era venuto in tour con noi.
Lui però queste cose le racconta a modo suo. Oppure fa delle sparate esagerate con l’obiettivo di avere titoloni sui giornali. Questo perché, sempre in quel periodo, ha scoperto la comunicazione grazie a un grande comunicatore come Riccardo Vitanza, fondatore e titolare dell’agenzia Parole & Dintorni, che all’epoca si occupava dell’ufficio stampa di Lorenzo e conseguentemente anche di Allevi, e che successivamente avrebbe prodotto vari album di Giovanni, portandolo al successo. Ma poi anche il loro rapporto lavorativo si sarebbe interrotto in modo piuttosto traumatico. Allora invece andavano molto d’accordo: sotto molti aspetti si può dire che Giovanni Allevi è una creazione di Riccardo Vitanza.
Un giorno Vitanza mi inviò un messaggio davvero brutto. In pratica mi rimproverava di aver sottovalutato le potenzialità del suo protetto. In quei giorni ero a Rimini assieme al mio carissimo amico Marco Mazzi, che si occupa di distribuzione di impianti hi-fi. Fu lui a suggerirmi di rispondere in modo elegante: fossi stato a Milano, probabilmente saremmo passati dalle parole ai fatti.
La rottura tra me e Giovanni avvenne perché a un certo punto lui si autoconvinse che fossi stato io a suggerire a Lorenzo di fregarsene di lui. In realtà se non fosse stato per me Lorenzo non gli avrebbe fatto incidere nemmeno il secondo disco. Decise di lasciarlo andare per due motivi. Primo, perché in quel periodo era molto concentrato su se stesso. Secondo, perché iniziava a rendersi conto che quando Soleluna produceva cose che non fossero riferibili a lui in prima persona, queste non funzionavano. Lorenzo è bravissimo a lavorare su se stesso, e anche quando scrive pezzi per altri non sbaglia mai: è successo con Irene Grandi, con Giorgia, con Ron, con Adriano Celentano. Quando ti dice: «Se canti questa fai il botto » puoi giurarci che la cosa funziona. Invece stenta quando si tratta di lavorare partendo da zero su materiale umano.

Allevi nel frattempo si era stabilito a Milano, si era sposato e la moglie aveva iniziato a fargli da manager. Dopo essersi laureata, sua moglie Nada aveva lavorato per un certo periodo come stagista da Vitanza. Essendo già fidanzata con Giovanni, in breve tempo si trasformò da addetta stampa a moglie-manager, diventando una presenza ingombrante e iniziando subito a stressare tutti.
Ricordo una volta che Allevi doveva aprire il concerto di Lorenzo nella curva dell’Olimpico a Roma: ebbe il coraggio di dire che il pianoforte si sentiva male. Giovanni apriva da solo, quindi bisognava portare un pianoforte gran coda sul palco e microfonarlo al volo. Anche se i tecnici erano dei super professionisti, in una situazione del genere è chiaro che qualcosa che non gira alla perfezione possa esserci. Anziché ringraziare per l’occasione che qualcuno aveva deciso di dargli, lei fece una gran cagnara.
Al che le chiesi: «Ma tu quante altre volte hai sentito un pianoforte amplificato dentro uno stadio?»
E lei: «Mai!»
«Ecco, allora ti sei già risposta. Perché parli senza sapere nemmeno cosa stai dicendo? Il tecnico del suono è un ottimo professionista, e in tempi così ristretti ha già fatto un mezzo miracolo. E comunque quel che conta davvero è la possibilità che ha avuto Giovanni, un regalo enorme».
In ogni caso dopo la nostra rottura, lui non ha mai cercato un incontro chiarificatore. Una volta fui io a telefonargli, e la sua risposta fu raggelante: «Hai la mia mail. Se devi dirmi qualcosa scrivimi». Ovviamente ci restai parecchio male.
Nel primo disco che incise con Vitanza ha ringraziato tutte le persone che gli avevo presentato io, ma il mio nome non compare nell’elenco.
Nel suo libro parla di nonnismo, riferendosi a me. È vero che nel periodo in cui abbiamo lavorato insieme gli ho fatto degli scherzi. Ma io li faccio a tutti, anche a Lorenzo. Nell’ambiente sono noto per essere un gran burlone.
La cosa che Allevi proprio non riusciva a mandar giù era che io lo prendevo in giro, e lo facevo piuttosto bene, mentre lui era incapace di reagire. Il fatto è che Giovanni ti guarda sempre dall’alto in basso.
Avete presente quella celebre battuta che Alberto Sordi dice nel Marchese del Grillo: ‘Io so’ io e voi non siete un cazzo’? Credo che sia una sintesi perfetta. Non è una questione di essere bravi o meno. Quello che dà fastidio è il voler far credere continuamente che sei una specie di genio incompreso.
Qualche tempo fa, per esempio, ha dichiarato di aver composto su commissione un concerto per violino e orchestra. Quel concerto in realtà lo aveva scritto sette anni prima, e lo tirò fuori in quell’occasione semplicemente perché non aveva altro da pubblicare. In ogni caso direi che è una composizione piuttosto risibile, qualcosa di cui nessuno sentiva il bisogno.

Lo stesso discorso vale per il disco con le canzoni di Natale. Quando uno incide un album così, i casi sono due: o sei proprio alla frutta, o sei Mariah Carey. E in questo caso ci sta. Ma se ti metti a fare da solo al piano Tu scendi dalle stelle lo trovo davvero triste.
È in casi come questi che si nota che al suo fianco non c’è più Riccardo Vitanza: lui un disco di Natale non gliel’avrebbe mai fatto fare. Anche perché Vitanza avrà pure un caratteraccio, come ben sanno tutti coloro che bazzicano l’ambiente musicale, ma nel suo lavoro è molto bravo. Infatti Allevi lo ha creato lui. Proprio come succede in Frankenstein Junior, si è trafitto con un bisturi e ha detto: «G. può fare! Giovanni può diventare questo!» E Riccardo ci ha creduto così tanto che ha raggiunto il suo obiettivo, creando un fenomeno mediatico di prima grandezza, anche grazie alla diffusione di comunicati stampa intitolati ‘Tutto esaurito al Blue Note di New York’. Avete presente quanto è grande il Blue Note? Basta che qualcuno inviti tutti quelli che lavorano per il consolato e per l’ambasciata italiana e il gioco è fatto: ci vuole niente a riempirlo. Il problema semmai è comunicarlo bene, e in queste cose Vitanza è geniale.
Secondo me, invece, Allevi non è quel musicista così geniale che crede di essere. Ha qualche problema con se stesso a causa di un ego spropositato. Avendo passato l’infanzia con lui, gli ho voluto e tutto sommato continuo a volergli bene. Ma conoscendolo nel profondo capisco al volo quando sta dicendo una stronzata. Quella volta che disse: «Jovanotti ha il senso del ritmo, Beethoven no» io scrissi su Facebook: ‘Caro Giovanni, il buon Ludovico Van non era un paraninfo. Tu sì.’ Chiaramente usai il termine ‘paraninfo’ perché volevo trovare un modo elegante per dire ‘paraculo’.

Comunque la sua collezione di stronzate è molto consistente. Per esempio quando ha dichiarato: «Mi è venuto un attacco di panico e mentre ero in ambulanza ho scritto Joy». Ma come? Chiunque abbia avuto un attacco di panico sa che in quel momento ti sembra di morire e l’ultima cosa che potrebbe venirti in mente è metterti a scrivere musica.
In ogni caso, visto che continua a fare concerti e ad avere un ottimo seguito, alla fine ha ragione lui. Anche se certe scelte stento a capirle. Come per esempio quella volta che lo invitarono a suonare in Senato. Per l’occasione si arrabbiò persino un gran signore come Uto Ughi, che gli disse: «Sei un compositore risibile».
Questo, in effetti, è la musica di Giovanni: risibile. Certo, è una parola che le masse non capiscono, ma l’osservazione è assolutamente corretta. Fatta tra l’altro da un autentico genio: Uto Ughi è un samurai, uno che suona Vivaldi per tre ore e mezzo e poi spiega per filo e per segno ciò che ha fatto. Perché lui la storia della musica la conosce davvero. Invece se c’è da fare un concerto in Senato chi chiamano? Allevi, perché vogliono accattivarsi il pubblico giovane. Se ne deduce che non è stata una scelta basata sul valore artistico, ma semplicemente una furbata della politica.

(foto Stefano De Grandis/Lapresse)