Il discorso sullo stato dell’Unione, stanotte
È di nuovo il momento di uno dei più importanti riti della politica americana, anche se forse ormai è un rito e basta: tutte le cose da sapere, maiali inclusi
di Francesco Costa – @francescocosta
Martedì 20 gennaio alle 21, quando in Italia saranno le tre del mattino di mercoledì 21, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama rivolgerà al Congresso il discorso sullo stato dell’Unione: cioè un tradizionale appuntamento annuale della politica statunitense, che visto da qui è una cosa a metà tra il discorso di insediamento con cui un presidente del Consiglio chiede la fiducia e il discorso di fine anno del presidente della Repubblica. Sarà il penultimo di Barack Obama: l’ultimo sarà quello che pronuncerà nel gennaio del 2016. Dopo si salterà un anno: il presidente neo-eletto si rivolge al Congresso in seduta plenaria poco dopo il suo insediamento ma formalmente non si tratta di un discorso sullo stato dell’Unione – il presidente non potrebbe darne conto, dato che è stato eletto da poco – bensì di un semplice discorso-al-Congresso-in-seduta-plenaria.
1. Cosa dirà Obama
Stando alle anticipazioni diffuse dalla stampa statunitense, stanotte Obama “dichiarerà vittoria” sulla crisi economica di questi anni, a fronte dei dati molto incoraggianti sull’economia americana e della sua conseguente maggiore popolarità rispetto a qualche mese fa. Obama proporrà nuove misure economiche a favore della classe media: l’espansione dei periodi di maternità e paternità per i genitori, la gratuità del college pubblico per gli studenti di famiglie meno abbienti e soprattutto un aumento delle tasse sui più ricchi della popolazione per poterle tagliare alla gran parte delle famiglie statunitensi. Obama farà sue probabilmente alcune proposte economiche dei repubblicani, che controllano il Congresso, nella speranza di intercettare il sostegno di parte dell’opposizione; in questi anni però non ci è riuscito quasi mai ed è molto complicato, per non dire impossibile, che ci riesca questa volta.
Anche per questo motivo sempre più opinionisti e analisti sostengono che il discorso dello stato dell’Unione sia ormai un rito privo di significato politico concreto, e quindi che forse sia il caso di tornare al passato: quando i presidenti rivolgevano una lettera scritta al Congresso, e basta. Quello era il discorso sullo stato dell’Unione: un passaggio formale e non un grande evento.
2. Perché si fa questo discorso?
La Costituzione degli Stati Uniti prevede che “di tanto in tanto” – “he shall from time to time” – il presidente dia informazioni al Congresso riguardo lo stato della nazione e i suoi programmi per il futuro. Nel tempo l’appuntamento ha assunto una scadenza fissa, che non è prevista dalla legge: una volta l’anno, tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, il presidente della Camera invita il presidente degli Stati Uniti a riferire al Congresso in seduta plenaria alla presenza dei membri del governo e della Corte Suprema, per rendere conto delle condizioni della nazione e descrivere le sue priorità per l’anno a venire.
Il discorso si tiene alla Camera, che ospita anche i cento membri del Senato. Accanto allo speaker della Camera siede il vicepresidente degli Stati Uniti, in questo momento Joe Biden, che è anche presidente del Senato.
3. Che cos’è, concretamente?
È un discorso lista-della-spesa, di quelli con dentro un po’ di tutto: infatti viene scritto nell’arco di mesi e praticamente a strati, con la collaborazione di tutti i settori del governo (il New York Times ha un bell’articolo su Cody Keenan, lo speechwriter 34enne della Casa Bianca che lavora al discorso da settimane). Forse anche per questo, al contrario di quanto accada di tanto in tanto con singoli discorsi su singole questioni, non si registrano quasi mai oscillazioni della popolarità di un presidente dopo il discorso sullo stato dell’Unione, né grandi conseguenze politiche. Le riforme promesse spesso restano in aria, perché persino nel sistema presidenziale statunitense serve il voto del Congresso per fare le cose – e il Congresso negli ultimi anni ha ostacolato quasi tutte le iniziative legislative di Obama, e dalle ultime elezioni di metà mandato i repubblicani controllano sia la Camera che il Senato.
Quello che il discorso fa, di tanto in tanto, è “ufficializzare” quali sono i temi di cui la Casa Bianca intende occuparsi di più nei mesi a venire. E poi produrre frasi e definizioni che passano alla storia: fu durante un discorso sullo stato dell’Unione, per esempio, che Bill Clinton disse “l’era del governo onnipotente è finita”, nel 1996; fu nel 2002 che George W. Bush parlò di “asse del male” relativamente ai paesi che sostenevano il terrorismo. Anche per questo da tempo molti sostengono che il discorso sia diventato un irrilevante “esercizio di esibizionismo politico”, come l’ha messa l’anno scorso George F. Will sul Washington Post.
4. Un minimo di storia
Il primo discorso sullo stato dell’Unione lo fece George Washington nel 1790. Nel 1801 Thomas Jefferson interruppe la tradizione, limitandosi a inviare al Congresso una copia scritta del discorso: pronunciarlo in aula gli sembrava un tentativo di scimmiottare il “discorso del trono” che si teneva abitualmente in Regno Unito. La tradizione fu reintrodotta da Woodrow Wilson nel 1913, sebbene con qualche eccezione. Nel 1981, per esempio, Jimmy Carter inviò al Congresso una copia scritta del discorso: e quella fu anche l’ultima volta che un presidente uscente, sconfitto alle elezioni di novembre ma ancora in carica per qualche giorno, decise di diffondere un discorso sullo stato dell’unione. Da quel momento in poi, comunque, nessun presidente rinunciò più alla possibilità di occupare un’ora di spazio televisivo in prima serata senza poter essere contraddetto e soprattutto senza spendere un dollaro.
5. Il “sopravvissuto designato”
Durante il discorso tutti i deputati, tutti i senatori, tutti i membri del governo, i giudici della Corte Suprema, il presidente e il vicepresidente degli Stati Uniti sono riuniti nello stesso posto. Per quanto il Congresso sia blindato e super protetto – Obama è difeso a stretta distanza dalla scorta anche quando si trova dentro l’aula – si tratta di una circostanza piuttosto pericolosa: in caso di attentato, esplosione, bombardamento, aereo di linea dirottato, eccetera, gli Stati Uniti si troverebbero decapitati, privi di qualsiasi forma di autorità nazionale riconosciuta. Per questa ragione ogni volta che un presidente si rivolge al Congresso in seduta plenaria – quindi anche ma non solo durante il discorso sullo stato dell’Unione – c’è un solo membro del governo che non partecipa all’evento: se ne sta da un’altra parte, in una località sconosciuta e sicura, e fa il designated survivor, il sopravvissuto designato, pronto a guidare la nazione dovesse accadere il patatrac.
La pratica è stata istituita durante la Guerra fredda, nel timore di un attacco nucleare. Durante il discorso sullo stato dell’Unione, al designated survivor viene assegnato un servizio di protezione speculare e identico a quello solitamente riservato ai presidenti, compreso un accompagnatore che porta con sé la famosa valigetta con i codici nucleari. In momenti particolarmente complicati della storia degli Stati Uniti, il designated survivor è stato addirittura il vicepresidente, così da assicurare al paese una leadership forte in caso di catastrofe: nel 2002, durante il discorso del presidente Bush in seguito agli attentati dell’11 settembre, il designated survivor fu proprio il vice presidente Cheney. Non è ancora noto chi sarà stasera il designated survivor. L’anno scorso fu il ministro dell’Energia, Ernest Moniz.
In una celebre scena della serie tv The West Wing, il presidente Bartlet spiega al designated survivor cosa dovrà fare in caso di guai: chiamare il proprio migliore amico, tra le altre cose.
6. Il contro-discorso
È tradizione che il partito di opposizione tenga una “risposta” al discorso del presidente, trasmessa dai network televisivi poco dopo la fine del discorso al Congresso. È un modo per catalizzare l’attenzione dei mezzi di comunicazione e per fornire una risposta immediata alle affermazioni del presidente, anche se non è uno strumento di grande efficacia: non si ricordano grandi e storiche risposte ai discorsi presidenziali, mentre invece sentire un discorso normale da un luogo normale da parte di un politico normale, spesso sconosciuto ai più, poco dopo la massima solennità del discorso del presidente al Congresso, finisce spesso per mettere in imbarazzo e ridimensionare l’opposizione stessa, piuttosto che giovarle.
Negli ultimi anni i discorsi di risposta a Obama sono stati fatti da politici repubblicani molto in vista: l’ex governatore della Virginia McDonnell, il deputato e già candidato alla vicepresidenza Paul Ryan, il governatore dell’Indiana Mitch Daniels e il senatore Marco Rubio. Nessuno di questi discorsi è stato indimenticabile (quello di Rubio si ricorda principalmente per via di una bottiglietta d’acqua). Forse anche per questo dall’anno scorso i repubblicani preferiscono politici meno di primo piano, senza immediate aspirazioni presidenziali: l’anno scorso il discorso di risposta era stato pronunciato dalla deputata Cathy McMorris Rodgers, la capogruppo dei repubblicani alla Camera; quest’anno lo pronuncerà Joni Ernst, neo-senatrice dell’Iowa. Lo sapete chi è Joni Ernst: è quella del famoso spot sui maiali castrati.
foto: il Congresso degli Stati Uniti (Getty Images)