8 canzoni di Joe Cocker

Che poi non erano mai di Joe Cocker, ma lui le faceva diventare ogni volta di Joe Cocker

British singer Joe Cocker performs during the German television show 'Wetten, dass..?' (Bet it..?) in Freiburg, southern Germany, on Saturday evening, March 31, 2007. (AP Photo/Alex Grimm, Pool)
British singer Joe Cocker performs during the German television show 'Wetten, dass..?' (Bet it..?) in Freiburg, southern Germany, on Saturday evening, March 31, 2007. (AP Photo/Alex Grimm, Pool)

Joe Cocker, cantante e rockstar famosissima in tutto il mondo da quasi mezzo secolo, è morto a 70 anni il 22 dicembre 2014. Aveva cantato con una voce unica cose molte diverse, scritte da autori straordinari e ricostruite come un’altra cosa dalle sue interpretazioni. Nel suo libro Playlist, la musica è cambiata, il peraltro direttore del Post Luca Sofri ne aveva scelte otto.

Joe Cocker (1944, Sheffield, Inghilterra – 2014, Colorado)
Una specie di animale addolcito dal tempo, dopo essere partito dal rock e aver rubato la scena a Woodstock, Joe Cocker ha cantato tutta la vita canzoni d’amore altrui a rischio svenevolezza, tenendole su con la formidabile catarrosità della sua voce. Se non avesse cantato, avrebbe potuto fare la rassegna stampa di Radio Radicale. «Dicono che io sia un fossile, ed è confortante: gli altri con cui cantavo sono tutti morti».

With a little help from
 my friends (With a little help from my friends, 1969)
Una delle rare canzoni dei Beatles diventate più celebri come cover che nell’originale. Rallentata, sofferta, formidabile, soul. La chitarra la suona Jimmy Page dei Led Zeppelin. Poi ci fu l’impietosa ed esilarante imitazione di Cocker che ne fece John Belushi al Saturday Night Live.

She came in through the bathroom window 
(Mad dogs & englishmen, 1970)
Qui siamo ai Beatles di Abbey Road. Cocker arrochisce la canzone che era già la più rock del disco, e la consegna alla memoria del pubblico italiano come sigla del programma tv per ragazzi degli anni Settanta che si chiamava Avventura.

The letter 
(Mad dogs & englishmen, 1970)
L’area semantica postale colpisce ancora: lei gli ha scritto una lettera e lui deve tornare subito, perché lei non può stare senza di lui, ma anche perché c’è questo “mister” che se la sta… ah-hem… (ma non c’era nella versione originale dei Box Tops). La versione italiana dei Corvi si chiamò “Datemi un biglietto d’aereo”.

Cry me a river
 (Mad dogs & englishmen, 1970)
Per riconoscerci lo standard jazz scritto da Arthur Hamilton e reso celebre da Julie London ci volevano due o tre ascolti, e poi ci si restava di sasso. Stavolta il buon Cocker fece un gran lavoro di trasformazione, mandandola al galoppo e rendendola un pezzo soul da Otis Redding nei giorni migliori.

You are so beautiful
 (I can stand a little rain, 1974)
Solo dei cinici biechi come voi possono non commuoversi ogni volta che Al Pacino arriva trafelato e sfinito e scardina la porta (vabbè, non la scardina proprio) ed entra da lei in Carlito’s Way: con “You are so beautiful” in sottofondo. Io già mi commuovo solo a ripensarci.
Era di Billy Preston, comunque.

Shelter me
 (Cocker, 1986)
Meritava un arrangiamento migliore di questa roba con le tastiere che sembrano i Rockets. Ma tolte quelle, è più adeguatamente tenebrosa e aggressiva delle altre sue cose di questo periodo: “I’m begging you”, questo deve cantare uno come Joe Cocker.

Night calls 
(Night calls, 1992)
Benché l’ultima parte della carrie
ra di Joe Cocker si sia rivolta con successo a un pubblico di frequentatori di autogrill e ascolta-tori di Isoradio, cercando di pati
nare la ruvidezza di un tempo, avvolgerlo nella melassa e ritirarlo 
su dopo disastri di droga e salute, qualcosa di lui rimane: a comin-ciare dalla voce. A un certo punto cantò questa canzone (scritta da
 Jeff Lynne), che non vinse oscar
 né spopolò come altre, ma che ha 
quel momento all’attacco del refrain in cui lui – stanco, che pare
 non ne abbia più la forza – prova ancora a ruggire “night calls!”, e sembra quasi farsi largo con le braccia, per liberarsi della melassa suddetta.

Have a little faith in me 
(Have a little faith, 1994)
Questa era di John Hiatt – una specie di gospel bianco – e aveva un bell’andamento insistente e un po’ monocorde intorno al pianoforte. Cocker la fece abbastanza simile, ma ci mise la sua voce e la sua ruvidezza, gonfiando il suono complessivo.

Foto: AP Photo/Alex Grimm, Pool