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  • Lunedì 8 dicembre 2014

La triste storia di Pierre Korkie

Uno dei due ostaggi di Al Qaida uccisi in Yemen durante un raid delle forze speciali americane stava per essere liberato e sua moglie lo aspettava: gli Stati Uniti non avevano idea che fosse lì

South African Yolande Korkie, a former hostage and wife of Pierre Korkie, holds a press conference in Johannesburg on January 16, 2014 to appeal for the release of her husband, still held in Yemen and whose deadline for ransom has been set for today. Kidnappers from Al-Qaeda in Yemen released Korkie, who was taken hostage in May along with her husband, on January 10 but her husband remains in captivity. AFP PHOTO/MARCO LONGARI (Photo credit should read MARCO LONGARI/AFP/Getty Images)
South African Yolande Korkie, a former hostage and wife of Pierre Korkie, holds a press conference in Johannesburg on January 16, 2014 to appeal for the release of her husband, still held in Yemen and whose deadline for ransom has been set for today. Kidnappers from Al-Qaeda in Yemen released Korkie, who was taken hostage in May along with her husband, on January 10 but her husband remains in captivity. AFP PHOTO/MARCO LONGARI (Photo credit should read MARCO LONGARI/AFP/Getty Images)

Sabato scorso un giornalista statunitense di 33 anni, Luke Somers, e un insegnante sudafricano di 54, Pierre Korkie, ostaggi di un gruppo affiliato ad al Qaida in Yemen, sono stati uccisi dai loro sequestratori durante una missione delle forze speciali americane per liberare i due ostaggi. Nelle ore successive alla loro uccisione diversi giornali online ne hanno parlato piuttosto confusamente, a causa della frammentarietà delle informazioni: prima che il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Chuck Hagel comunicasse ufficialmente la notizia, alcune agenzie di news avevano inizialmente riferito che i due ostaggi erano stati liberati, mentre altre li avevano dati da subito per morti. È una storia grossa, di cui si sta parlando molto, e che sta generando un esteso dibattito riguardo l’opportunità dei raid statunitensi in genere e riguardo la quantità di informazioni possedute stavolta dalle forze speciali prima di procedere.

Le discussioni e le polemiche sono alimentate in queste ore dal fatto che nello stesso giorno dell’uccisione dei due ostaggi, come dettagliatamente ricostruito dal New York Times, un’organizzazione di beneficenza sudafricana non governativa – Gift of the Givers Foundation – stava attendendo la liberazione di Pierre Korkie, l’ostaggio sudafricano, grazie a una trattativa slegata dall’operazione delle forze statunitensi. Questa stessa organizzazione era riuscita a ottenere la liberazione della moglie di Korkie, Yolande, nello scorso gennaio: i due erano tenuti in ostaggio insieme dal gruppo di al Qaida in Yemen fin dal maggio 2013. Insomma sembra che l’operazione delle forze speciali americane non abbia saputo o non abbia tenuto conto della presenza di Korkie, che è stato ucciso durante l’attacco a poche ore dalla sua possibile liberazione.

Nelle settimane scorse l’organizzazione sudafricana e Yolande Korkie avevano ricevuto dal gruppo terrorista la conferma dell’accettazione di un accordo per liberare Pierre Korkie pagando un riscatto di 200 mila dollari (circa 163 mila euro). Un alto funzionario statunitense ha detto che la squadra delle forze speciali non sapeva della presenza di Korkie come secondo ostaggio e che l’operazione era stata decisa perché era in corso un rischio immediato per il giornalista americano, Luke Somers.

Stando alle ricostruzioni al momento più accreditate, l’operazione statunitense è cominciata con il lancio di un missile in un’area nel sud dello Yemen presieduta da al Qaida: il missile ha causato la morte di nove miliziani. A quel punto un gruppo di militari delle forze speciali americane, a bordo di alcuni elicotteri, ha raggiunto il villaggio nel sud del governatorato di Shabwa in cui si trovavano i due ostaggi. Secondo un fonte dell’intelligence dello Yemen riportata da Reuters, “quando le forze speciali sono entrate nel luogo in cui si trovavano gli ostaggi hanno detto ai sequestratori di arrendersi perché erano circondati da tutti i lati, ma quelli hanno immediatamente ucciso i due ostaggi prima che le forze speciali aprissero il fuoco contro di loro. A quel punto hanno cercato di soccorrere gli ostaggi ma erano già morti”. Altri otto civili yemeniti sono rimasti uccisi nell’operazione.

Era il secondo tentativo delle forze speciali per liberare Somers, che era stato rapito l’autunno scorso all’esterno di un supermercato a San’a’. Il raid precedente aveva permesso la liberazione di altri otto ostaggi tenuti prigionieri vicino al confine con l’Arabia Saudita, ma in quella circostanza Somers era stato spostato in un altro luogo diversi giorni prima del raid. Mercoledì scorso i suoi sequestratori avevano diffuso un video in cui mostravano Somers mentre chiedeva aiuto e minacciavano di ucciderlo entro la fine della settimana se le loro richieste non fossero state accolte. Scrive il New York Times che né il governo degli Stati Uniti né quello sudafricano pagano riscatti per ottenere la liberazione dei propri cittadini prigionieri dei gruppi terroristi, perché quei pagamenti “incoraggerebbero i rapitori e perpetuerebbero il problema”.

È per questo motivo che diverse famiglie di cittadini ostaggi – in risposta a quello che spesso ritengono un sostanziale disinteresse dei governi dei loro paesi rispetto alle vicende dei rapimenti – si rivolgono sempre più spesso ad associazioni e gruppi non governativi che intercedono con i rapitori e cercano di portare avanti delle trattative a volte lunghissime per ottenere le liberazione degli ostaggi, eventualmente anche dietro il pagamento di un riscatto (per la moglie di Korkie non ne era stato pagato alcuno, per esempio).

Intorno alle 6 del mattino di sabato, mentre si trovava a Johannesburg, Yolande Korkie aveva ricevuto dalla direttrice di Gift of the Givers, Imtiaz Sooliman, un sms in cui c’era scritto: “L’attesa è quasi finita”. Yolande e l’associazione lavoravano da mesi alla liberazione di Pierre. In quei momenti un convoglio di macchine per conto dell’associazione stava per lasciare la città di Aden, in Yemen, per andare a recuperare Pierre – in base all’accordo con i sequestratori – nel posto in cui era tenuto prigioniero. Alle 8.03 Yolande Korkie ha ricevuto una telefonata in cui è stata avvisata della morte del marito durante un raid americano la cui preparazione era ignota a lei e all’associazione, scrive il New York Times.

Diversi aspetti e dettagli riguardo l’uccisione di Luke Somers e Pierre Korkie, e riguardo il fallimento del raid per liberarli, non sono ancora stati chiariti.

(nella foto Yolande Korkie, moglie di Pierre Korkie, durante una conferenza stampa tenuta a Johannesburg il 16 gennaio 2014, sei giorni dopo essere stata liberata)