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  • Lunedì 24 novembre 2014

“Perché non lo portate a Lourdes?”

Un po' di pagine dal nuovo libro di Lorenzo Amurri, paralizzato quasi del tutto da un incidente, su come funziona un viaggio a Lourdes per uno che non ci crede

È uscito per Fandango il libro Perché non lo portate a Lourdes? di Lorenzo Amurri, il suo secondo romanzo dopo il successo di Apnea, nel quale raccontava l’incidente che lo ha paralizzato quasi completamente, la riabilitazione e la ricostruzione di una vita quotidiana. In Perché non lo portate a Lourdes? Amurri racconta di come è arrivato alla decisione di fare un viaggio a Lourdes e di come tutto sia nato da un incontro casuale con una persona che non conosceva. Il libro spiega anche come Amurri, che non è credente, abbia vissuto il fatto di trovarsi in un posto in cui la dimensione religiosa è ritenuta fondamentale.

Oltre al racconto del viaggio a Lourdes il libro comprende il racconto Il miracolo, che funziona da collegamento fra Apnea e il nuovo libro: è il testo qui di seguito.

***

Non sembra abbia avuto contrazioni stanotte.
Di solito mi sveglio di traverso, con le ginocchia piegate che invadono la parte destra del materasso; mi ritrovo invece nella stessa posizione nella quale ero quando ho preso sonno. Non succede mai.
Credo di avere un’erezione.
Anche questo non succede mai. O meglio succede, ma io non sento niente.
Deve trattarsi di una parestesia. Una di quelle sensazioni che si crede di provare quando c’è un problema di recisione dei nervi. Un dolore fantasma – non proprio dolore nel mio caso – come accade agli amputati, che continuano a sentire male nell’arto che non c’è più. Ho poca forza nelle braccia e le mani inermi non mi sono di grande aiuto, ma una coperta riesco ancora a gestirla. La sollevo puntando i pugni all’interno, e con un colpo secco in avanti scopro la pancia. Punto di nuovo i pugni e la spingo più avanti con forza. Il cazzo sguscia fuori in piena erezione come il clown a molla quando si apre la scatola magica. Altro che scherzo di carnevale, mi spavento sul serio.
I sensi ora sono iperattivi: scandagliano il corpo come il sonar di un sommergibile. Il mio sguardo scende sulle cosce, sulle ginocchia, sulle caviglie e agisce da interruttore della mia sensibilità. Ogni parte del corpo riprende vita attraverso i miei occhi. Sento il cuscino che ho tra le ginocchia, per prevenire i decubiti da contatto; sento anche quello sotto le caviglie; sento le talloniere con l’interno foderato di pecora, che proteggono i piedi. Sento sento sento! Guardo le mani: le dita, serrate da anni, si aprono una dopo l’altra al mio comando, mostrando il palmo e le linee che lo solcano. Mi metto a fare “marameo”, col pollice appoggiato sul naso e le dita che ballano la breakdance. Il cervello è sovraccarico, troppi messaggi tutti insieme. Non riesco a gestirli. Le braccia da scheletriche, sono di nuovo muscolose. Passo una mano sui pettorali e arrivo alla spalla sinistra: le ossa della clavicola e l’omero, danneggiati nell’impatto, sembrano tornati a posto. Non sento dolore e le ossa non scrocchiano più. Passo le dita sul collo e sul viso, non sento le cicatrici. Sono sparite.
Come se non mi avessero operato.
Come se non avessi avuto l’incidente.

Non ho ancora provato a muovermi. Il cervello sta affannosamente cercando di arginare la piena di nuove informazioni. Mi sento diviso dentro me stesso. Una parte sta decifrando, archiviando, distribuendo, riavviando in automatico; l’altra è la coscienza parlante, impegnata a capire l’ampiezza di ciò che sta succedendo. Tendo i muscoli addominali, per essere sicuro che funzionino. Lentamente tiro su il busto, aiutandomi con le braccia. Mi guardo intorno, il collo è più libero. Lo ruoto da sinistra verso destra di 180 gradi, mi gira subito la testa e mi devo stendere di nuovo. Respiro profondamente. Cerco di rallentare l’emisfero automatizzato. Mancano le gambe, devo provare a muoverle. Sono piegate e coricate sul fianco destro. Mi concentro e apro la gamba sinistra. Allungo una mano, prendo il cuscino che avevo fra le ginocchia e lo scaravento contro il muro. Stendo entrambe le gambe e ruoto i piedi.

Rido.

Sì, rido. L’euforia sta prendendo il sopravvento. Riesco a muovere tutto, perfino le dita dei piedi. L’overdose di informazioni immagazzinate è ora sotto controllo. Sono di nuovo tutt’uno col mio cervello. Voglio alzarmi e camminare. Mi siedo sul letto, con le gambe fuori e i piedi appoggiati per terra. Un brivido attraversa il mio corpo: il pavimento è ghiacciato, ma rimango immobile, piedi piantati. È quasi piacevole: dopo tanto silenzio, anche la voce più sgradevole diventa bella. Mi gira un po’ la testa. Faccio lunghi respiri. Ho paura: come faccio a stare in piedi? Le gambe sono ferme da troppo, come faranno a sorreggermi? E l’equilibrio? Gli addominali funzionano e i muscoli delle gambe sono di nuovo loro. Forse devo chiamare il mio assistente, ma poi chi gli spiega cosa succede? No, non posso affrontare mille domande a cui, tra l’altro, non saprei rispondere. Devo provare.

Punto i piedi, tendo i muscoli dei polpacci, piego leggermente il busto in avanti e mi do una leggera spinta con le braccia, sperando che le ginocchia reggano il peso. Resto in piedi un attimo, con le gambe piegate e il busto ricurvo, prima di cadere come un sacco di patate. Mi ritrovo steso sul fianco sinistro con la schiena appoggiata al muro della finestra. Ho sbattuto spalla e anca, ma è stato più forte il rumore del tonfo che il dolore provato. Non manca la forza e le ginocchia reggono, è una questione di abitudine, di postura. Devo ricordare la posizione giusta dei piedi, delle gambe, del busto e della testa per rimanere dritto.

Mi metto a quattro zampe e gattono fino alla scrivania. Giro la sedia e mi ci arrampico. È ghiacciata anche lei. Mi rendo conto di essere nudo e di avere di nuovo un sedere, distrutto dalle piaghe da decubito e dalle operazioni mal riuscite. Chissà se sono sparite anche queste cicatrici. Metto entrambe le mani sulla scrivania e mi alzo di nuovo in piedi. Questa volta ho il busto e la testa dritti e guardo il muro davanti a me. Non oso girarmi per ora. Rimango in piedi, fermo: sento il sangue scorrere impetuoso su e giù per il corpo come le rapide di un fiume in piena. Lentamente giro il collo verso sinistra e guardo la finestra. La prospettiva è diversa da quassù, sembra tutto più piccolo. Voglio guardare fuori, attraverso i buchi della serranda. Voglio guardare il giardino fiorito: è primavera e tutto fiorisce, forse anch’io.

Tenendo una mano appoggiata sulla scrivania giro anche il corpo, stando attento a rimanere dritto e in perfetto equilibrio come un tronco d’albero robotizzato. Faccio il primo piccolo passo in avanti, il primo dopo dodici anni. Mi fermo per gustarne ogni minimo effetto. L’emozione è forte: ho una fitta allo stomaco e gli occhi mi si riempiono di lacrime. Ne faccio un altro e poi ancora uno, assicurandomi con la mano alla libreria incassata nel muro. Vado verso la luce, come nelle migliori tradizioni cristiane. Solo non sono ancora morto, almeno credo. Schiaccio il naso contro il vetro della finestra e un raggio di luce mi acceca. Scosto la testa e cerco di mettere a fuoco. Vedo i miei cani che giocano: anche loro sembrano più piccoli da quassù. Si voltano verso la finestra all’unisono, come se sapessero che li sto guardando. Ho voglia di buttarmi sul prato a giocare con loro. Il giardino è bellissimo, è come se lo vedessi per la prima volta. All’improvviso, sento il rumore della porta del corridoio che si apre e dei passi avvicinarsi alla mia stanza. Mi giro di scatto: deve essere il mio assistente che viene a svegliarmi. Non posso farmi trovare in piedi. Mentre la porta scorrevole della mia stanza si apre, riesco a fare due passi in precario equilibrio e, spinto più dalla paura di essere scoperto che dalla volontà, mi lancio sul letto. Con una mano afferro la coperta e mi nascondo alla peggio, favorito dalla penombra della stanza.

“Buongiorno Lorenzo”, non sembra essersi accorto di niente. Faccio finta di dormire.
“Sono le dieci arriva l’infermiera”, già pure l’infermiera. Ma tutto oggi cristo?! Rispondo fingendomi ubriaco di sonno: “Non ce la faccio, che ore sono?”.
“Le dieci.”
“Mandala via, devo dormire.”
“Va bene.”
“Ti chiamo io quando mi sveglio.”

Così sono sicuro che non ci saranno altri ingressi improvvisi. Sulla carrozzina, parcheggiata vicino, trovo una maglietta. Le mutande non le porto da anni, tanto non aspetto visite; posso tranquillamente rimanere così. In realtà non ho paura che mi veda l’assistente o la mia famiglia. Impazzirebbero di gioia nel vedermi di nuovo in piedi e non avrebbero bisogno di alcuna spiegazione. Sono gli altri a spaventarmi. Il resto del mondo, pronto a giudicare, a confutare. Sarebbero capaci di non credere alle mie parole. Magari mi accuserebbero di aver finto, per essere servito e riverito da tutti. Come se l’essere disabili fosse una condizione vantaggiosa. Sembra assurdo, ma proprio ciò che consideriamo tale, diviene molto spesso reale. Sarei considerato un mostro peggiore di quelli che occupano i posti riservati o che continuano a percepire pensioni di invalidità di parenti morti e sepolti. Dovrei combattere anche per essere ufficialmente “normale”.

Mi alzo di nuovo. Ho già meno difficoltà d’equilibrio, vado verso la scrivania ma mi fermo di colpo. Vedo il riflesso del mio corpo sul vetro della finestra. Mi avvicino per guardarmi il viso: due guance piene e la pelle integra hanno preso il posto del volto scavato e delle cicatrici. Ho l’impressione di essere ringiovanito. Mi allontano e giro il corpo quanto basta per guardarmi il culo. Anche qui le cicatrici sono scomparse e la schiena è perfettamente dritta.
Ho paura.
La stessa paura che provavo dopo l’incidente. Un corpo paralizzato su una carrozzina, impotente davanti a qualsiasi tipo di evento. Ero diventato l’essere più piccolo della terra, una particella di polvere pronta a essere spazzata via dal primo alito di vento. Ho imparato negli anni che il cervello e l’anima potevano rimpiazzare il corpo, essere forti come lui. Mentre ora non riescono a sostenerne il ritorno. Come se si trattasse di un nuovo incidente, grave come il primo.
Arrivo alla scrivania e accendo il computer. Guardo la sedia e la sposto, sono stato seduto abbastanza.

Forse non sono il solo.

Forse su internet ci sono già notizie di altre guarigioni. Ciechi che vedono, muti che parlano, amputati a cui ricrescono gli arti. Una serie di eventi inspiegabili renderebbe tutto più semplice. Vado sui siti dei maggiori quotidiani ma non trovo notizie al riguardo. Digito “disabile torna a camminare” su Google, ma i risultati parlano di robot che insegnano a camminare; di ausili elettronici dalle molteplici applicazioni; di richieste di aiuto per giovani animali disabili.
Di miracoli e miracolati neanche l’ombra.
Se non ci sono notizie sulla rete, vuol dire che sono il solo. È buffo, sono saltato da una solitudine interiore a una esteriore, visibile e insieme più invisibile di prima. Una solitudine impossibile da condividere.

La parola “miracolo” continua a rimbalzarmi in testa, fastidiosa come una pallina da ping-pong. Non potrei sopportare di essere inghiottito dal mostro Vaticano. Io, laico e semiateo, accomunato a qualche santo del giorno che, col potere concessogli da Dio in persona, mi ha guarito. Affinché io possa rendergli grazie portando l’esempio della sua misericordia in ogni diocesi del mondo, per sempre. E poi non ho visto nessuna luce, nessun santo e nessun Dio. Altrimenti mi sarei dovuto ricredere su tutta una serie di cose, e avrei avuto bisogno di due giorni e tre o quattro preti per confessare i miei peccati.

Sulla scrivania c’è un cd di Stevie Ray Vaughan, con lui che imbraccia una chitarra in copertina. La chitarra. La mia chitarra! La mia vita! La mia passione!
L’avevo nascosta così in profondità nel mio cuore, che ho avuto bisogno di un’immagine per rievocarla. Io sono la mia chitarra e le sue note erano le mie sole parole. Chissà se ancora parlo la sua lingua, dopo un tempo che ora mi sembra infinito. Devo suonare. Devo suonarla. Le mie vene pulsano e il sangue corre impetuoso verso le mani, che fremono e a fatica ne contengono la forza. La chitarra è nella stanza accanto. Mi avvicino alla porta scorrevole. Uscire è troppo rischioso: devo fare mezzo corridoio e infilarmi nella stanza, prendere lo strumento e tornare indietro. E se l’assistente torna proprio mentre sono dentro la stanza? Se mia madre va in bagno e mi trova nel corridoio con la chitarra sottobraccio? Già vedo la scena: io che la carico, priva di sensi, sulla carrozzina e la porto – seminudo – al pronto soccorso. E non si tratta solo di questo. La mia camera è una specie di grembo materno; di utero accogliente. Uscire sarebbe come svestirsi bruscamente della placenta, lasciare il liquido ovattato che mi protegge. Non è il momento di rinascere, non ancora almeno. Anche se è difficile resistere, frustrante. Posso muovermi, posso sentire, posso toccare ma sono ancora prigioniero del mio corpo.

Mi siedo per terra accanto alla porta, con la testa tra le mani. Se rifiuto il miracolo, devo per forza abbracciare la spiegazione scientifica, che forse è ancora peggio. Significa sottopormi a qualsiasi tipo di test, analisi, indagine conosciuta: radiografie, risonanze magnetiche, aghi da midollo lunghi quindici centimetri, test di medicina nucleare. Non potrei sottrarmi, quantomeno per le altre persone nelle mie condizioni, attaccate a una speranza che non sembra avvicinarsi mai. Forse sarebbe davvero meglio il miracolo: un Padre Nostro e tutti a casa.
Mi sento male.

Dovrei essere felice, dovrei uscire urlando di gioia, dovrei prendere la chitarra e suonare e ballare e cantare. Invece resto qui, annichilito dalle angosce, dalle paure, dalle domande che forse sono solo immaginarie e stupide; ma che sento così reali.
Mi alzo e cammino verso la finestra. Sono in perfetto equilibrio adesso e sento ogni passo. Il movimento della gamba, il tallone che tocca il pavimento leggermente prima della pianta, la punta che spinge e gradualmente vola via verso il prossimo atterraggio. È bellissimo, e ogni passo sembra durare in eterno. Guardo di nuovo dai buchi della serranda. I cani sono sempre lì che giocano. Stavolta non si girano, non sentono la mia presenza. Neanch’io la sento. Non mi sento in nessun luogo preciso in questo momento. Mi trovo tra un mondo e un altro. Indeciso e perciò assente.

Mi avvicino al letto e mi stendo guardando il soffitto. Qui mi sento al sicuro. In una posizione e con una visuale che conosco, a cui sono abituato – dove non devo nascondermi da nessuno. Una stanchezza disarmante si sta impadronendo del mio corpo, la tensione è svanita. Mi giro verso destra e, senza pensare, mi rimetto le talloniere e risistemo i cuscini protettivi sotto le caviglie e tra le ginocchia. Mi è rimasta tanta voglia di suonare. Meglio riposare un po’ prima, forse al risveglio troverò il coraggio di sgattaiolare nell’altra stanza. Forse al risveglio sarà tornato tutto come prima.
Normale.