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  • Martedì 30 settembre 2014

Perché le proteste di Hong Kong sono importanti

Quello che sta succedendo nella regione speciale della Cina potrebbe avere importanti conseguenze per Taiwan e per il Tibet

di Matteo Miele – @matteomiele

HONG KONG - SEPTEMBER 29: Protesters sit on top of a parking ramp in the Central District on September 29, 2014 in Hong Kong. Thousands of pro democracy supporters have remained in the streets of Hong Kong for another day of protests. Protestors are unhappy with Chinese government's plans to vet candidates in Hong Kong's 2017 elections. (Photo by Anthony Kwan/Getty Images)
HONG KONG - SEPTEMBER 29: Protesters sit on top of a parking ramp in the Central District on September 29, 2014 in Hong Kong. Thousands of pro democracy supporters have remained in the streets of Hong Kong for another day of protests. Protestors are unhappy with Chinese government's plans to vet candidates in Hong Kong's 2017 elections. (Photo by Anthony Kwan/Getty Images)

Il punto centrale delle proteste di questi giorni a Hong Kong mira a preservare ed estendere quella autonomia sulla quale cinesi e inglesi trovarono un accordo negli anni Ottanta del Ventesimo secolo. Un’autonomia che si deve articolare su un sistema essenzialmente liberal-democratico, ma che è pesantemente condizionata (come era facile aspettarsi) dal peso del regime comunista. Una dura repressione delle proteste, però, oltre a influenzare pesantemente la già compromessa immagine del governo di Pechino nel sistema di relazioni internazionali, avrebbe sviluppi politici inattesi anche su altri piani.

Sarebbe infatti anche il segnale del destino fallimentare di un’eventuale riunificazione con Taiwan (che dal 1949 rivendica la legittimità del governo cinese). Taipei ha ormai compiuto il suo processo di democratizzazione. Il partito del presidente Ma Ying-jeou, il Kuo-min-tang (che con il supporto statunitense, nel corso di buona parte della seconda metà del Novecento, aveva permesso lo sviluppo economico e tecnologico di Taiwan, ma mantenendo in piedi una dura dittatura), è strenuamente contrario a formalizzare l’indipendenza, cosa che comporterebbe il rischio di uno scontro armato con Pechino. Il fallimento della formula “un paese, due sistemi” a Hong Kong, però, potrebbe portare nuovi sostegni al partito indipendentista di Taiwan (il Partito democratico progressista, che ha governato l’isola dal 2000 al 2008), che chiede la rottura formale del legame storico con il continente, cambiando il nome ufficiale da Repubblica di Cina a Taiwan e pretendendo un seggio alle Nazioni Unite non in sostituzione della Cina (fino al 1971 il seggio cinese all’ONU, e dunque nel Consiglio di sicurezza con potere di veto, era appunto occupato dal Governo nazionalista a Taipei e non da quello di Pechino), ma come paese indipendente. Una crisi militare è stata di fatto evitata grazie alla difesa statunitense dell’isola, sulla base del Taiwan Relations Act, che regola le relazioni tra Taiwan e gli Stati Uniti a seguito della rottura formale delle relazioni diplomatiche nel 1979 (fino ad allora la difesa era stata garantita da un trattato). Nel 2005 (poco dopo la rielezione del candidato democratico progressista alla presidenza) i cinesi avevano invece approvato una legge che autorizza anche azioni militari in caso di secessione di Taiwan.

Chiaramente nemmeno il governo di Washington gradirebbe un’avanzata degli indipendentisti. Un primo test per comprendere la portata della situazione sarà rappresentato dalle elezioni municipali sull’isola, che dovranno avvenire a fine novembre, mentre quelle più delicate, per la presidenza, sono previste nel 2016.

La situazione a Hong Kong potrebbe anche mettere in difficoltà quelli che, come il Dalai Lama, sperano di trovare una via di sostanziale autonomia e libertà (e non di piena indipendenza) per il Tibet all’interno del sistema cinese. L’abbandono della via dell’indipendenza dalla Cina popolare, in cambio di una reale autonomia politica, religiosa e culturale, si scontra praticamente con l’impossibilità di coniugare il modello comunista autoritario con un assetto federale. Se non si riesce a garantire democrazia a un piccolo territorio come quello di Hong Kong, figuriamoci a una realtà come quella tibetana che è grande quanto l’Europa occidentale. Il federalismo, per essere effettivo, presuppone la democrazia. All’interno della comunità tibetana esiste da tempo una sostanziale frattura tra la posizione indipendentista (sostenuta in primo luogo dal Congresso della Gioventù tibetana) e quella autonomista del Dalai Lama, considerata via obbligata in particolare dopo il riconoscimento indiano, nel 2003, della sovranità cinese sul Tibet (in cambio di un riconoscimento quasi-formale, da parte cinese, della sovranità indiana sul Sikkim). Anche gli inglesi, nel 2008, hanno accettato ufficialmente la sovranità cinese sul Tibet, mutando la propria antica posizione.

Formalmente e di fatto il Tibet, fino all’invasione degli anni Cinquanta, non era mai stato “cinese”, ma coesisteva in una relazione di tipo religioso tra l’imperatore mancese della dinastia Ch’ing (come nel medioevo con il sovrano mongolo) e il capo politico del Tibet, il Dalai Lama. Caduto l’Impero con la proclamazione della Repubblica cinese nel 1912, si era rotto anche il legame, venendo meno una delle due parti.

L’isolamento messo in atto a livello internazionale intorno al Dalai Lama e i fatti di Hong Kong potrebbero accentuare le divisioni interne alla comunità in esilio, cosa presumibilmente, in prima battuta, ben vista da Pechino. Allo stesso tempo, però, la dirigenza comunista in Cina rischierebbe di perdere l’unico interlocutore che porta avanti una soluzione accettabile anche per Pechino e ritrovarsi dunque in difficoltà ben più ampie di quelle che si trova già a dover affrontare.