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  • Giovedì 10 luglio 2014

Tutti gli uomini del re

La spregiudicatezza politica nell’America degli anni trenta - o nel mondo di oggi - nel classico di Robert Penn Warren, ripubblicato adesso in Italia

L’editore 66thand2nd ha pubblicato il libro Tutti gli uomini del re di Robert Penn Warren (per la collana Feltrinelli Indies, tradotto in italiano da Michele Martino): è considerato un classico della letteratura americana del Novecento, vincitore del premio Pulitzer nel 1947, e ne sono state tratte due versioni cinematografiche, una nel 1949 che ha vinto i premi Oscar per miglior film, miglior attore protagonista (Broderick Crawford) e migliore attrice non protagonista, e una nel 2006 con Sean Penn. 
Il libro racconta la storia di Willie Talos, carismatica figura che partendo da tesoriere della contea arriva a diventare governatore di uno stato del Sud degli Stati Uniti con un programma politico progressista e populista, senza farsi nessuno scrupolo per raggiungere i suoi obiettivi. La figura di Willie Talos è ispirata a quella del governatore populista della Louisiana e senatore degli Stati Uniti negli anni ’30 Huey Long. 
In questo estratto siamo al ritorno di Willie Talos e del suo staff a casa del padre per un servizio fotografico.

***

Il vecchio ci stava aspettando sui gradini della veranda. Era uscito dalla porta appena avevamo imboccato il vialetto di casa, dopo aver oltrepassato il cancello, che era munito su entrambi i lati di un vomere appeso con del fil di ferro, allo scopo di tenerlo chiuso e al tempo stesso annunciare visite. Il vecchio si fermò sui gradini e aspettò. Non troppo alto, e piuttosto magro, indossava un paio di jeans e una camicia blu ormai scolorita fino a un azzurro pastello, oltre a uno di quei farfallini neri che si comprano già pronti con l’elastico. A mano a mano che ci avvicinavamo, iniziammo a distinguerne la faccia, abbronzata e segnata, con quella pelle sottile, appesa alle ossa, che dà agli anziani quell’aria di proverbiale pazienza, i capelli grigi allisciati sul cranio ovale – i capelli ancora umidi come se li avesse pettinati con l’acqua subito dopo aver sentito la macchina, per essere a posto all’ultimo momento – e i placidi occhi azzurri incastonati nella pelle bruciata e grinzosa. L’azzurro degli occhi era pallido e slavato come quello della camicia. Non aveva né baffi né fedine, e si vedeva che si era appena rasato perché aveva due o tre taglietti col sangue rappreso, nei punti in cui il rasoio si era incagliato tra le rughe di quella scorza secca e abbronzata.
Rimase lì sui gradini, e a giudicare dalla sua espansività noialtri avremmo fatto meglio a starcene in città, affaccendati con le nostre legittime occupazioni.
Poi il Capo salì verso di lui, gli tese la mano e disse: “Ciao, papà, come va?”.
“Tiriamo avanti,” fece il vecchio, e gli strinse la mano – o meglio, allungò la sua sollevandola dal gomito come aveva fatto Cartapecora nel drugstore di Mason City, e lasciò che il Capo gliela stringesse.
Si avvicinò anche Lucy Talos, e senza dire una parola gli diede un bacio sulla guancia sinistra. Neanche il vecchio disse niente, quando lei lo baciò. Si limitò ad alzare il braccio destro e a metterlo intorno alle spalle di Lucy, non proprio per abbracciarla, solo per metterlo lì sulle spalle della donna, a cui diede due o tre pacche stanche e dolenti con quella vecchia mano nodosa, abbronzata e deforme, sproporzionata rispetto all’osso del polso. Poi la mano ricadde penzoloni sul fianco, lungo i jeans, e Lucy Talos fece un passo indietro. “Come butta, Lucy?” le chiese il vecchio con un filo di voce.
“Come butta, papà?” rispose lei, e la mano che ciondolava accanto ai jeans del vecchio ebbe un fremito, come se dovesse alzarsi di nuovo per darle un’altra pacca sulle spalle, ma non lo fece.
Non era necessario, credo. Che dicesse a Lucy Talos quello che Lucy Talos sapeva già, che aveva sempre saputo senza bisogno di parole fin dal giorno in cui aveva sposato Willie Talos e si era seduta lì accanto al fuoco insieme al vecchio, che aveva perso la moglie tanti anni prima e da allora non aveva più avuto una donna per casa. E cioè che avevano qualcosa in comune, il vecchio Talos e Lucy Talos, che amava e aveva sposato Willie Talos – quel Willie Talos che, mentre loro sedevano in silenzio davanti al fuoco, era su in camera sua chino su un testo di legge, il viso serio e perplesso, la ciocca di capelli davanti alla fronte, quel Willie Talos che non era con loro accanto al fuoco, ma di sopra, in camera sua, e forse nemmeno lì, ma in una stanza o in un mondo dentro di sé, dove qualcosa si gonfiava e cresceva impercettibilmente con penosa monotonia, come una grossa patata in una cantina umida e buia. In comune avevano quel mondo di muti silenzi accanto al fuoco, un mondo che assorbiva alla perfezione, senza sforzo, i gesti di ogni giorno, i gesti delle loro occupazioni e di tutti i giorni che avevano vissuto e dei giorni che ancora dovevano venire, nei quali avrebbero agito e compiuto i gesti di cui era fatta la loro vita, quella per cui erano nati. Dunque sedevano lì, la donna e il vecchio, uniti da una comune consapevolezza, mentre il ciocco bruciava e sibilava sbriciolandosi nel focolare, e assaporavano insieme l’attacco e la pausa nel ritmo delle loro vite. Era questo che avevano in comune, e niente e nessuno poteva toglierglielo. Ma in comune avevano anche qualcos’altro: sapevano di non possedere quello che avevano. Non possedevano Willie Talos, che era tutto quello che avevano.
Oppure guardate le mani nodose e deformi del vecchio che danno una pacca sulle spalle di Lucy, quando lei si china a baciarlo senza dire una parola, e fatevi un’idea per conto vostro.
Il Capo aveva iniziato le presentazioni: prima Duffy, che era felicissimo di conoscere il vecchio Talos, eccome se lo era, poi tutta la cricca che era scesa dalla seconda vettura. Alla fine indicò me e disse al padre: “Ti ricordi di Jack Burden, vero?”.
“Me lo ricordo,” disse il vecchio, e ci stringemmo la mano.
Entrammo in salotto e ci distribuimmo qua e là sulle vecchie poltrone imbottite con crine di cavallo, che ci pungeva le narici secche con un acre odore di mummia. Qualcuno si accomodò sulle seggiole impagliate che il vecchio Talos e il Capo avevano preso dalla cucina, mentre piccoli corpuscoli di polvere nuotavano nei raggi che filtravano sotto gli scuri delle finestre affacciate a ovest, attraverso le tende di trina un tempo bianche e ormai ingiallite, che pendevano incerte dalle bacchette come reti da pesca in attesa di essere rammendate. Tutta la comitiva si sedette, ognuno sistemò il sedere sull’imbottitura di crine o di paglia e fissò le assi grezze dell’impiantito o il disegno sul tappeto di linoleum al centro del pavimento, come se fossimo a un funerale e dovessimo dei soldi al morto. Il tappeto di linoleum sembrava nuovo e i colori ancora brillanti – rosso, beige e blu – creavano una specie di frivola e impertinente isola geometrica che galleggiava in mezzo alle ombre senza angoli, all’acre odore di mummia e al lento dilatarsi del Tempo che si era insinuato tra le pareti di quella stanza, un giorno dopo l’altro, per anni, come in un mare chiuso dove i pesci sono morti e l’aria ha un sapore salmastro. Avevi come l’impressione che se il Capo, Duffy, Sadie Burke, il fotografo, i giornalisti, voi e tutti gli altri vi foste accoccolati sul linoleum, quello vi avrebbe sollevato per magia dal pavimento, trascinandovi prima in un pigro giretto della stanza per poi fluttuare fuori dalla porta o dal tetto, come l’isola galleggiante di Gulliver o il tappeto incantato delle Mille e una notte, trasportandovi nel luogo a cui sia noi sia lui appartenevamo di diritto, lasciando il vecchio Talos seduto lì come se nulla fosse accaduto, il viso ben rasato e tagliuzzato dalla lametta, i capelli grigi umidi e ben pettinati, seduto proprio lì al tavolo, dove la grande Bibbia e l’elegante album di famiglia riposavano sotto lo sguardo immobile e bramoso del volto barbuto nel ritratto a pastello appeso sulla cappa del camino.

La cameriera nera portò una caraffa d’acqua e un vassoio con tre bicchieri, strascicando un vecchio paio di scarpe da tennis sulle assi indurite del pavimento. Lucy Talos ne prese uno e Sadie Burke un altro, mentre noialtri ci passammo il terzo, sperando che nessuno avesse la febbre aftosa o la morte nera.
A quel punto il fotografo lanciò uno sguardo furtivo al proprio orologio, si schiarì la gola e disse: “Governatore—”.
“Eh?” rispose il Capo.
“Stavo pensando… se lei e la signora Talos vi siete riposati, e gli altri…”, e rimanendo seduto accennò un inchino verso Lucy Talos, un inchino dalla vita in su che sembrò costargli una certa fatica, come se il caldo lo avesse sfiancato e fosse sul punto di svenire sulla sedia, “se i signori—”
Il Capo si alzò. “Va bene,” disse con un sorriso. “Penso di aver capito.” Poi guardò la moglie con aria interrogativa.
Anche Lucy Talos si alzò.
“Qui siamo a posto, papà,” disse il Capo al vecchio, e anche il vecchio si alzò.
Il Capo uscì per primo sulla veranda. Noialtri lo seguimmo come in una processione. Il fotografo aprì la portiera della seconda vettura, tirò fuori il treppiede e il resto dell’attrezzatura e sistemò le cose di fronte alla veranda. Il Capo era in piedi sui gradini, sbattendo le palpebre e sorridendo come se fosse mezzo addormentato e sapesse già che sogno avrebbe fatto.
“Prima lei da solo, governatore,” disse il fotografo, e noi ci togliemmo dai piedi scendendo dalla veranda.
Il fotografo nascose la testa sotto il drappo nero, poi riemerse illuminato da un’idea. “Il cane,” disse, “faccia venire il cane da lei, governatore. Lo accarezzi, o qualcosa del genere, lì sui gradini. Sarà fantastico. Magnifico. Lei che accarezza il cane e il cane che gioca con le zampe, come se le facesse le feste quando lei torna a casa. Ecco. Sarà la fine del mondo.”
“Come no, la fine del mondo,” disse il Capo.
Poi si girò verso il cagnaccio bianco che da quando la Cadillac era arrivata al cancello non aveva mosso un muscolo ed era sdraiato a un’estremità della veranda come un tappeto di pelliccia consunto. “Qui, Buck,” chiamò il Capo schioccando le dita.
Ma il cane non si mosse.
“Qui, Buck,” ripeté il Capo.
Tom Talos pungolò il cane con il piede, per incoraggiarlo un po’, ma era come se avesse pungolato un grosso cuscino.
“Buck è bello che andato,” disse il vecchio Talos. “Non è più arzillo come un tempo.” Poi si diresse verso i gradini e si piegò in avanti con un movimento tale che ti saresti aspettato di sentire i cardini arrugginiti della porta di un granaio cigolare. “Ehi Buck, ehi Buck,” lo blandì il vecchio senza troppa convinzione. Ci rinunciò e alzò gli occhi sul Capo. “Se aveva fame,” disse e scosse la testa. “Se aveva fame magari lo potevamo fregare. Ma fame non ne ha. Ha i denti ridotti male.”
Il Capo mi guardò, e compresi il motivo per cui prendevo uno stipendio.
“Jack,” disse il Capo, “porta qui quel bastardo peloso e fai in modo che sembri felice di vedermi.”
Erano tante e diverse le cose che mi toccava fare, e una di queste era prendere in braccio, in un pomeriggio d’estate, un cagnone pulcioso di quindici anni che pesava sessanta chili e dipingergli sul musetto fedele un’espressione di indicibile gioia mentre fissava intensamente gli occhi del Capo. Afferrai le zampe anteriori di Buck, come se dovessi spingere una carriola, e lo sollevai. Ma non ci riuscii. Sollevai la parte anteriore per un secondo, ma mentre lo tiravo su il cane aprì la bocca e io inspirai. Una zaffata del fiato di Buck era più che sufficiente. Puzzava come un nido d’avvoltoio. Rimasi paralizzato. Buck atterrò sulle assi della veranda e giacque lì come la pelliccia di un orso polare, di cui sembrava la copia spiccicata.
Allora Tom Talos lo prese dalla coda insieme a un giornalista, io afferrai di nuovo le zampe anteriori trattenendo il respiro, e riuscimmo a trascinare Buck per i due metri e mezzo che lo separavano dal Capo. Il Capo si preparò, noi tirammo su il cane e il Capo si beccò una zaffata dell’alito di Buck.
Una zaffata bastò e avanzò.
“Perdio, papà,” biascicò il Capo appena riuscì a controllare il conato, “che gli dai da mangiare a questa bestia?”
“Non ha appetito,” disse il vecchio Talos.
“Di certo non per le viole, poco ma sicuro,” disse il Capo, e sputò a terra.
“È caduto,” osservò il fotografo, “perché le zampe posteriori hanno ceduto. Appena riusciamo a metterlo in piedi, dobbiamo fare in fretta.”
“Riusciamo?” sbottò il Capo. “Riusciamo? Vieni qui a dargli un bel bacio. Una di quelle zaffate basterebbe a cagliare il latte e scortecciare un pino. Riusciamo… Ma va’ all’inferno.”

Il Capo trattenne il respiro, e noi sollevammo di nuovo il cane. Inutilmente. Buck non aveva un briciolo di energia. Provammo sei o sette volte, ma non c’era niente da fare. Alla fine il Capo dovette sedersi sui gradini, e noi trascinammo Buck adagiando la fedele testolina sul ginocchio del Capo. Il Capo posò la mano sulla testa di Buck e guardò l’obiettivo del fotografo. Il fotografo scattò e disse: “La fine del mondo”. E il Capo gli fece il verso: “Come no, la fine del mondo”.
Il Capo rimase qualche secondo seduto con la mano sulla testa del cane. “Un cane,” disse, “è il miglior amico dell’uomo. Il vecchio Buck è il miglior amico che abbia mai avuto.” E grattò la testa della bestia. “Povero, vecchio Buck, il miglior amico che abbia mai avuto. Ma che Dio mi fulmini,” aggiunse alzandosi così di colpo che la testa di Buck scivolò dalle ginocchia, “se non puzza come tutti gli altri.”
“Lo pubblichiamo, Capo?” chiese uno dei giornalisti.
“Come no,” rispose il Capo. “Puzza come tutti gli altri.”
A quel punto trascinammo via la carcassa di Buck e il fotografo si rimise all’opera. Fotografò il Capo e la sua famiglia in ogni possibile combinazione. Poi raccolse gli strumenti e disse: “Governatore, lo sa che vogliamo una fotografia al piano di sopra. Nella camera che aveva da bambino. Sarebbe la fine del mondo”.
“Come no,” disse il Capo, “la fine del mondo.”
Questa era una mia idea. Sarebbe stata davvero la fine del mondo. Il Capo seduto con un vecchio libro di scuola in mano. Un bell’esempio per i giovani. Così salimmo al primo piano.
La stanza era piccola, con il pavimento di tavole e le pareti perlinate, che un tempo dovevano essere gialle ma che ormai lasciavano intravedere il legno nei punti dove la pittura si era scrostata. C’era un grande letto di legno con le spalliere alte, entrambe curiosamente fuori asse, e un copriletto bianco. C’era anche un tavolo, un tavolo di pino, un paio di sedie normalissime e una stufa – di quelle di lamiera che chiamano “inceneritori”, abbastanza arrugginita –, e contro la parete, oltre la stufa, un paio di scaffali fatti in casa, stipati di libri. Antologie, geografia, algebra e roba del genere nel primo, e un mucchio di vecchi testi giuridici nell’altro.
Il Capo si fermò al centro della stanza e diede un lungo sguardo in giro, mentre noi ci accalcammo sulla soglia come tanti pecoroni, in attesa. “Gesù,” disse il Capo, “se rimettete il vecchio pitale sotto il letto mi sentirei proprio a casa.”
Diedi un’occhiata sotto il letto, e l’affare in effetti non c’era. Era l’unico dettaglio mancante. Quello e il ragazzo dalla faccia paffuta e lentigginosa, con i capelli rossicci sulla fronte, chino sul tavolo accanto al lume a petrolio – a quel tempo doveva trattarsi per forza di un lume a petrolio –, la matita in mano e i segni dei denti sulla matita, perché la mordicchiava, col fuoco che moriva nella stufa e il vento che dal Dakota batteva sul lato nord della casa dopo aver soffiato per migliaia di chilometri attraverso le pianure ghiacciate, perlacee di neve indurita dal vento, baluginanti nel buio, attraverso i fiumi e le colline che una volta erano orlate di pini che gemevano al vento, ma dove adesso non c’era più nulla a rompere la furia delle raffiche. Il telaio della finestra a ghigliottina sul lato nord sbatteva al vento, e la fiamma del lume a petrolio si inclinava tremolando alla corrente che filtrava nella camera, ma il ragazzo non sollevava la testa. Curvo sul tavolo, continuava a rosicchiare la matita. Più tardi spegneva la lampada, si toglieva i vestiti ed entrava nel letto, con solo la biancheria addosso. Le lenzuola erano così fredde al contatto con la pelle che il ragazzo intirizziva all’istante. Ma rimaneva là, tremando nel buio. Il vento continuava a fischiare da migliaia di chilometri, investendo la casa, il telaio della finestra vibrava e dentro quel ragazzo qualcosa cresceva, attorcigliandosi lentamente su se stesso, e coagulandosi, finché trattenendo il respiro il ragazzo non sentiva il sangue pulsargli in testa con un suono sordo, come se la testa fosse una caverna vasta quanto il buio là fuori. Il ragazzo non avrebbe saputo dare un nome a quel qualcosa che sentiva crescere dentro di sé. Forse un nome non c’era neppure.
Ecco cosa mancava nella stanza: il ragazzo e il pitale. Per il resto era perfetta.
“Chissà dov’è finito,” stava dicendo il Capo. “Ma per me va bene lo stesso. Magari sedersi sopra un gabinetto ti fa venire l’acido allo stomaco, come dicevano i vecchi, ma di sicuro ti permette di studiare legge in modo più comodo. E perdi molto meno tempo.”
Il Capo aveva l’intestino pigro. Più di una volta avevamo discusso affari di stato attraverso la porta del bagno, il Capo dentro e io fuori su una sedia, col mio taccuino sulle ginocchia e il telefono che squillava all’impazzata.
Nel frattempo il fotografo aveva iniziato a sistemare le cose. Fece sedere il Capo al tavolo, nell’atto di studiare un’antologia piena di orecchie, o qualunque cosa fosse quel libro, poi lasciò scattare il lampo al magnesio e catturò la prima immagine. Ne fece altre cinque o sei, il Capo seduto vicino alla stufa, con un testo di legge sulle ginocchia, e Dio sa cos’altro. Io non riuscii a sorbirmi tutto il balletto. Mi avviai al piano di sotto lasciandoli da soli a fabbricare documenti per la posterità.