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  • Lunedì 9 giugno 2014

La storia incredibile della Coppa Rimet

Cioè quella che dal 1930 al 1970 veniva consegnata a chi vinceva i Mondiali, che negli anni fu rubata, trovata, nascosta in una scatola di scarpe, forse persino fusa

18th March 1966: A security guard hands over the Jules Rimet World Cup Trophy to Ernie Allen (Sales Manager of Stanley Gibbons) at Central Hall in London before the 1966 World Cup. (Photo by J. Wilds/Keystone/Getty Images)
18th March 1966: A security guard hands over the Jules Rimet World Cup Trophy to Ernie Allen (Sales Manager of Stanley Gibbons) at Central Hall in London before the 1966 World Cup. (Photo by J. Wilds/Keystone/Getty Images)

La squadra che vince i Mondiali di calcio vince la Coppa del Mondo (il FIFA World Cup Trophy, in inglese). Ma questa coppa esiste soltanto dall’edizione del Mondiale in Germania del 1974: prima di allora, dal 1930 al 1970, la squadra che vinceva il Campionato del Mondo veniva premiata con una coppa che aveva tutto un altro aspetto – era più piccola e pesava meno, intanto – e aveva un altro nome, Coppa Rimet. Fu realizzata da un orafo parigino su richiesta dell’avvocato Jules Rimet, che era il presidente della FIFA – l’organo di governo del calcio mondiale – e aveva fondato il torneo nel 1929. Poi, nel 1946, questo trofeo – inizialmente noto come Coppa della Vittoria (o semplicemente trofeo Victory) – prese il nome di Rimet, e divenne la Coppa Rimet, appunto.

La storia di questa coppa – lunga e interessante: nel corso degli anni fu “rubata, trovata, maledetta, rifatta, rubata, trovata, forse fusa” – è stata raccontata da Fulvio Paglialunga in un articolo per l’Ultimo Uomo.

Lo volle Jules Rimet, avvocato francese con il vizio del pallone, più di altri affezionato all’idea che il calcio potesse essere professionismo e che quindi non bastavano le Olimpiadi. Stavano strette. Serviva un Mondiale. E lo organizzò partendo da un ristorante di Barcellona, era da poco diventato presidente della FIFA, dopo aver riunito altri dirigenti e aver deciso che sì, era il momento di far partire un campionato del mondo tra nazioni (il via al progetto fu dato il 29 maggio 1928 al congresso di Amsterdam). Puntò sull’orgoglio, perché il CIO guardava male il professionismo e voleva escludere il calcio dai Giochi (infatti poi lo escluse) e allora meglio fare da soli e fare di più.

Dunque, un Mondiale che si rispetti ha bisogno di un luogo (e c’è l’Uruguay che paga anche le spese alle altre Nazionali) e di un trofeo. Così nasce la Coppa, che si chiama Victory e viene commissionata a Abel Lafleur, orafo parigino cresciuto alla scuola di Cartier. Trenta centimetri, nemmeno troppo: una vittoria alata che regge una Coppa decagonale, piedistallo di marmo, 3.800 grammi, 1.800 grammi di oro. Il nome del suo ideatore la Coppa lo prese nel 1946, quando diventa anche lei “Rimet”. La “Vittoria alata” nasce, passa di mano in mano, si nutre di misteri, aneddoti, storie. Rubata, trovata, maledetta, rifatta, rubata, trovata, forse fusa. Tutto parte dal viaggio, il primo.

IN NAVE
La sua prima volta verso un Mondiale, la Coppa viaggiò in nave. Cioè: un piroscafo italiano, il Conte Verde. C’erano tre arbitri, Rimet, e pure le Nazionali. Ma anche migranti, borghesi, viaggiatori per piacere. E cantanti lirici, come Šaljapin, tenore russo del quale si narra un rifiuto, quando gli chiesero di cantare per festeggiare il passaggio dell’equatore e si sdegnò: «Se fossi un ciabattino vorreste forse che suolassi le vostre scarpe gratis? È la stessa cosa, gratis non canto». La Coppa c’era sin dalla partenza da Genova, in una cassaforte. A Genova salì a bordo anche la Romania, mentre a Villefranche-sur-Mer toccò ai francesi (ai quali Rimet stesso fece ottenere dei permessi per assentarsi 60 giorni da lavoro), a Barcellona fu il turno del Belgio e infine a Rio fu il momento del Brasile, la terza Nazionale a bordo della nave con la Coppa (anche la Jugoslavia viaggiò in nave, ma con la Floridia, partendo da Marsiglia). Mentre la Coppa era custodita perché restasse intatta la bellezza, le squadre si allenavano sui ponti di bordo, con il pallone che finiva in mare e i passeggeri che qualcosa da ridire l’avevano. Lucien Laurent, il francese autore del primo gol della storia dei Mondiali (in Francia-Messico 4-1, il 13 luglio 1930), lo raccontò: «Trascorremmo 15 giorni nel Conte Verde per raggiungere il Sud America. Gli esercizi di base li facevamo di sotto e ci allenavamo sulla coperta della nave. Il nostro allenatore non ci parlò mai di tattica». La Coppa stava lì. Con loro. E sarebbe tornata con una Nazionale sola, nemmeno sicura di essere ancora in nave.

LA SCATOLA DI SCARPE E ALTRE STORIE
La Coppa arrivò in Uruguay e ci rimase quattro anni, perché i padroni di casa vinsero e dunque la tennero lì, prima di portarla a Roma nel ’34 e lasciarcela, perché poi vinse l’Italia quel Mondiale e quello del ’38, allontanandola da casa solo per il tempo di portarla in Francia, trionfare e riportarla indietro. A casa, appunto. Perché a guerra in corso Ottorino Barassi, segretario della Federcalcio, la prese dalla banca dove era custodita e la portò nella sua abitazione: avrebbe dovuto tenerla fino al ’42, il Mondiale che non si giocò (quella della Patagonia è una geniale invenzione di Soriano, ma non una manifestazione vera) perché la guerra era in corso. La casa di Barassi, la guerra, la leggenda. Partendo da un punto fermo: o per il bisogno d’oro della Germania o per il valore esoterico che si dava al trofeo (e che intrigava Hitler: secondo la sua visione avrebbe reso la Germania invincibile), la Platzkommandantur dà l’ordine di trovare la Coppa Rimet e la Gestapo si presenta a casa Barassi, in piazza Adriana. A Roma. Barassi forse perché conosce il calcio (ci ha giocato con l’Unitas di Cremona) simula, dice che lui di questa Coppa non sa niente, che l’hanno presa quelli del Coni e della Federazione e portata a Milano, quegli ingrati nemmeno gli avevano permesso di tenerla con sé, al riparo. Insomma, non può accontentare i tedeschi che però nel dubbio gli perquisiscono casa, ma non guardano sotto il letto, dove c’è una scatola di scarpe e dove c’è la Coppa. La scena tramandata è di quest’uomo vagamente somigliante a Togliatti che nel calcio dell’epoca ha rivestito quasi tutti i ruoli (e dal 2011 vanta un riconoscimento alla memoria nella Hall of Fame del calcio italiano) lasciarsi cadere sul divano sbuffando per il pericolo scampato, quando i tedeschi abbandonano casa sua convinti che, sì, quella Coppa non c’è.

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Foto: J. Wilds/Keystone/Getty Images