I sikh che lavorano nell’Agro Pontino

«Ci danno una piccola sostanza per farci lavorare di più» e non sentire fatica e dolore: il reportage del Manifesto sulle migliaia di indiani che lavorano nelle campagne

Il titolo in prima pagina sul Manifesto di oggi venerdì 16 maggio è “I dopati della terra” e fa riferimento a un reportage di Angelo Mastrandrea (che a sua volta cita un dossier della onlus In Migrazione) sulle condizioni di lavoro degli indiani sikh nelle campagne dell’Agro Pontino. Vicino a Sabaudia, infatti, vive parte della più nume­rosa comu­nità sikh dopo quella di Novel­lara, in Emilia Romagna: 12 mila abi­tanti cen­siti uff­icialmente («in realtà, con­tando gli “irre­go­lari”, le pre­senze aumen­tano deci­sa­mente: 30 mila, forse per­sino di più»), che lavorano quasi tutti come contadini anche dodici ore al giorno per quattro euro all’ora, nel migliore dei casi, e che «per soprav­vi­vere ai ritmi mas­sa­cranti e aumen­tare la pro­du­zione sono let­te­ral­mente costretti a doparsi con sostanze stu­pe­fa­centi e anti­do­lo­ri­fici che ini­bi­scono la sen­sa­zione di fatica».

L’ovetto che aiuta a sop­por­tare la fatica costa appena dieci euro, al mer­cato nero dello schia­vi­smo pon­tino. Singh ha due pos­si­bi­lità: scio­gliere il con­te­nuto diret­ta­mente in bocca o mesco­larlo al chai, il tè dei sikh. Sce­glie la seconda per­ché «se lo man­gio fa più male, allo sto­maco e alla gola». Così, di prima mat­tina, quella che gli indiani di Bel­la­far­nia chia­mano «la sostanza» can­cella la fatica e i dolori del giorno pre­ce­dente e si pre­para ad affron­tare quello che sta per comin­ciare «dopato come un cavallo», come sostiene Marco Omiz­zolo, un gio­vane socio­logo che, con l’associazione In migra­zione, ha rea­liz­zato un dos­sier che è un j’accuse nei con­fronti di padron­cini e capo­rali del basso Lazio.

I tanti Singh dell’agro pon­tino – i nomi non sono di fan­ta­sia: i sikh reli­giosi por­tano tutti lo stesso cognome, che vuol dire «leone», men­tre le donne pren­dono l’appellativo Kaur, «prin­ci­pessa» — da que­ste parti lavo­rano quasi tutti nelle cam­pa­gne, a col­ti­vare ortaggi in maniera inten­siva, sotto il sole o in serre arro­ven­tate che si tra­sfor­mano in camere a gas quando ven­gono costretti a spruz­zare agenti chi­mici senza nes­suna pro­te­zione. Sot­to­po­sti ad anghe­rie e soprusi, sfrut­tati all’inverosimile, costretti a chia­mare «padrone» il datore di lavoro, sot­to­pa­gati e con il rischio di essere deru­bati della misera paga men­tre tor­nano a casa in bici­cletta.

Come far fronte a tutto ciò? Rac­conta B. Singh in un ita­liano sten­tato: «Io lavoro dalle 12 alle 15 ore al giorno a rac­co­gliere zuc­chine e coco­meri o con il trat­tore a pian­tare altri ortaggi. Tutti i giorni, anche la dome­nica. Non credo sia giu­sto: la fatica è troppa e i soldi pochi. Per­ché gli ita­liani non lavo­rano allo stesso modo? Dopo un po’ ho male alla schiena, alle mani, al collo, anche agli occhi per via della terra, del sudore, delle sostanze chi­mi­che. Ho sem­pre la tosse. Il padrone è bravo ma paga poco e vuole che lavori sem­pre, anche la dome­nica. Dopo sei o sette anni di vita così, non ce la fac­cio più. Per que­sto assumo una pic­cola sostanza per non sen­tire dolore, una o due volte durante le pause dal lavoro. La prendo per non sen­tire la fatica, altri­menti per me sarebbe impos­si­bile lavo­rare così tanto in cam­pa­gna. Capi­sci? Troppo lavoro, troppo dolore alle mani».

Eccola qui, la nuova fron­tiera dello sfrut­ta­mento del lavoro migrante: gli schiavi delle campa­gne ven­gono dopati per pro­durre di più e non sen­tire la fatica. Dall’inizio dell’anno, le forze dell’ordine hanno seque­strato tra Latina, Sabau­dia e Ter­ra­cina una decina di chili di sostanze stu­pe­fa­centi: «metan­fe­ta­mine», con­te­nute negli ovetti spac­ciati soprat­tutto dai capo­rali. Ma anche bulbi di papa­vero da oppio essiccati.

(Continua a leggere sul Manifesto)