Le edizioni Doppiozero hanno pubblicato un ebook di Tiziano Bonini dedicato alla cultura e allo stile “Hipster”, al ricostruirne la storia del secolo scorso e i ritorni recenti: «L’hipster è di sicuro la cultura giovanile dominante degli anni Zero del Duemila e ora che sta iniziando a tramontare, possiamo finalmente cercare di capirci qualcosa», scrive Bonini. Il libro si intitola semplicemente Hipster e si può scaricare qui al prezzo di 3 euro.
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La prima volta che ho sentito la parola hipster è stato durante una vacanza a New York, nel 2003, dopo che il mio “lavoro” (mia madre non l’ha mai accettato come tale) di studente di dottorato mi aveva portato vicino Chicago per un convegno. Ero ospite di un amico di un’amica di mia sorella in una casa di Brooklyn dove il tassista, quando mi riportava a casa, aspettava che fossi entrato prima di ripartire, perché la zona, dopo le dieci di sera, non era per niente tranquilla.
Quella parte di Brooklyn (tra Bedford Avenue e Dean Street) era all’epoca abitata da comunità caraibiche, arabe e afroamericane assieme. Ero lì il giorno che ci fu il blackout di tutta la costa orientale, il 14 agosto 2003 e ricordo venditori di ghiaccio improvvisati per la strada e giocatori di basket al chiaro di luna, tossici agli incroci a dirigere il traffico e vecchi con le radioline a transistor alle orecchie per capire cosa stava succedendo. Dividevo l’appartamento con un barista gay di Time Square che sognava di fare l’attore e una deliziosa ragazza di Los Angeles che diceva di cercare lavoro ma stava tutto il giorno barricata in casa a guardare e riguardare Il Signore degli Anelli. Fu lei che una volta, mentre stavo uscendo di casa, mi disse che le sembravo un hipster, per via dei miei jeans rovinati e della giacca leggera a quadretti che portavo. Io non sapevo che cosa fosse un hipster e ci rimasi male, perché mi vestivo così solo perché, da bravo provinciale, avevo paura di dare nell’occhio. Lei mi rispose che erano quei bianchi che si vestivano un po’ bohémien per somigliare a un musicista jazz afroamericano. Ci rimasi male, perché sembrava che l’avesse detto con un certo tono di rimprovero, come se volessi passare per qualcosa che non ero. Non diventammo mai amici, in quei venti giorni di coabitazione.
La mia coinquilina mi aveva dato la giusta definizione di hipster, quella originale. Ma nel 2003, negli Stati Uniti, già si aggiravano i primi, nuovi hipster. All’epoca non lo sapevo, ma i giovani con le bici a scatto fisso e le barbe lunghe visti a Williamsburg qualche giorno prima, erano già i primi coloni dell’hipsterismo che sarebbe dilagato negli anni successivi. Quando il mio amico americano, Nicholas, mi aveva portato a mangiare in un ristorante messicano di Williamsburg la domenica prima della mia partenza, il quartiere era ancora un ammasso di magazzini abitato dai primi artisti e studenti squattrinati che avevano trovato in Williamsburg un rifugio più economico di Manhattan.
Se fate una ricerca su Google Ngram Viewer scoprirete che la parola ‘hipster’ inizia a comparire nei testi americani dopo il 1940 e subisce un’impennata nella frequenza d’uso tra il 1950 e il 1970, dopodiché cade nel dimenticatoio, surclassata dalla caduta del muro, dall’ascesa degli yuppies e della cocaina. Poi però la parola riprende inaspettatamente quota e torna di moda a fine degli anni ‘90 ed esplode nell’uso comune tra il 2003 e il 2010, diventando un concetto-ombrello usato a sproposito, per lo più in senso dispregiativo, per bollare qualsiasi comportamento giovanile vagamente affettato e fintamente contro-culturale.
Soprattutto la popolarità del termine è dovuta allo stile di abbigliamento che identifica l’hipster contemporaneo: occhiali dalla montatura spessa, barbe incolte e baffi curati, meglio se all’insù stile Cecco-Beppe, maglietta a strisce orizzontali, sciarpe anche d’estate, bicicletta a scatto fisso, accessori vari, passione nostalgica per tutti i media analogici del passato, dal vinile al super8 alle polaroid, meglio se remixati in una app per smartphone.
Una classe di curatori/creativi, come la definisce il più importante critico musicale vivente, Simon Reynolds, “che lavorano in settori come l’Information Technology, i media, la moda, il design, l’arte, la musica e altre industrie dell’estetica. Una classe di quasi creativi – spregiativamente nota come hipster – rintracciabile in qualsiasi città del mondo sviluppato abbastanza grande e ricca da sostenere un’alta borghesia degna di questo nome (…) La posizione geografica non conta più: i membri dell’Internazionale Hipster si somigliano l’un l’altro più di quanto non somiglino a coloro ai quali abitano fisicamente vicino.
Il giovane scrittore canadese Douglas Haddow scrive ironicamente nel 2008 sulla rivista di critica culturale Adbusters che la recente diffusione dello stile hipster rappresenta la fine della civiltà occidentale:
Da quando gli Alleati bombardarono i paesi dell’Asse fino a sconfiggerli, la società occidentale ha visto emergere una successione di movimenti controculturali che hanno energicamente sfidato lo status quo. In ogni decade successiva alla seconda guerra mondiale si sono susseguiti movimenti che hanno rimesso in discussione gli standard sociali e dato vita a scontri e lotte che hanno rivoluzionato ogni aspetto della musica, dell’arte, della politica e della società civile. Ma dopo che il punk è stato assorbito e plastificato nella moda e che l’hip hop ha perso il suo originale impeto radicato nella richiesta di cambiamento sociale, tutte le precedenti spinte subculturali si sono fuse assieme. Ora si sta affermando un nuovo stile, mutante, trasversale, transatlantico. Un melting pot di stili, gusti e comportamenti che va genericamente sotto il nome di stile ‘hipster’. Lo stile hipster ha operato un’appropriazione artificiale di stili differenti, provenienti da epoche differenti. L’hipsterismo è lo stile caratteristico della fine dell’occidente – una cultura persa nella riedizione superficiale del proprio passato, incapace di creare qualcosa di nuovo. Non è soltanto insostenibile, ma suicida. Mentre i precedenti movimenti giovanili hanno sfidato e criticato la disfunzione e la decadenza delle generazioni più vecchie, oggi abbiamo l’hipster, una subcultura giovanile che rispecchia la superficialità destinata alla morte della nostra società.
(…) Forse è solo una fase della cultura occidentale di inizio millennio e non esattamente la fine della civiltà occidentale, ma chi può dirlo?
In questa fase gli hipster sono riconosciuti come quelli che si attribuiscono il merito di aver scoperto una nuova tendenza culturale per primi. Sono gli early adopter della società dei consumi. L’orgoglio proviene dal saper decidere cosa è cool in anticipo sul resto della società, non più, come accadeva negli anni ‘50, dove l’orgoglio hipster risiedeva nell’adozione del be bop sperimentale come forma di resistenza al conformismo culturale dell’epoca. Eppure, dietro l’hipster contemporaneo, c’è la stessa voglia di riscatto sociale che animava l’hipster americano: entrambi sono outsider della società, che si costruiscono uno stile personale di consumo culturale per distinguersi dal resto della società e attribuirsi un nuovo ruolo sociale. In qualche modo, entrambi sono motore di ibridazioni culturali, solo che nel secondo caso, gli stili adottati dagli hipster sono stati subito intercettati dalla moda e dalla società dei consumi, impacchettati e brandizzati.
L’hipsterismo è il mezzo che i mass media hanno utilizzato per rendere desiderabili nuovi trend indirizzati alla cultura pop giovanile. Gli hipster sono generalmente studenti di college o laureati ma non appartengono a nessuna specifica classe economica. Negli Stati Uniti, hipster e hip hop sono le due culture dominanti alle quali aspirano tutti i giovani in preda ad angosce adolescenziali. Gli hipster sono nichilisti. Amano il kitsch, perché ammirando l’assurdo e le cose vecchie rinforzano la legittimità della loro eccentricità. Invece di fare delle cose ed avere delle passioni dettate dalla propria identità, al contrario è l’identità dell’hipster a costruirsi intorno a ciò che fa e a ciò che consuma. Questo comportamento è particolarmente importante per il marketing dei brand, perché quando un prodotto viene scelto dagli hipster acquisisce immediatamente maggior valore e desiderabilità nel resto della popolazione. L’hipster è la quintessenza del consumatore moderno.
L’anti-conformismo del bianco-negro americano, esistenzialista e nichilista, disilluso e borderline dell’hipster originale è stato completamente assorbito dalla società dei consumi e restituito slavato e senza vigore, sotto forma di filtro vintage Instagram. La storia si ripete sempre due volte, la seconda in forma di farsa. Il secondo hipster della Storia è una farsa, un fake, una versione annacquata dell’originale. Se l’hipster bianco guardava con nostalgia ai neri americani, l’hipster contemporaneo guarda con nostalgia a tutto quello che rappresenta il passato. Nonostante sia contornato dai gadget tecnologici più avanzati, l’hipster volge con malinconia lo sguardo al mondo analogico degli amplificatori in legno di una volta, alle radio a manopola, alle macchine fotografiche con il rullino scovate in qualche mercatino delle pulci di Berlino o più facilmente su Ebay. L’hipster è ossessionato dalla ricerca dell’autenticità: nella musica, nelle relazioni, negli oggetti di design, nel cibo. Nella musica questa ricerca dell’autenticità si traduce ad esempio in un ritorno del vinile e del suono analogico. Le vendite di dischi in vinile negli Stati Uniti sono passate da mezzo milione nel 1993 a un milione nel 2007, per poi subire un’accelerazione negli ultimi cinque anni, raggiungendo 6 milioni di vendite nel 2013. Il ritorno del vinile è decisamente un sottoprodotto della smania di autenticità neo-hipster. Anche la passione per i cibi organici e a chilometro zero ha la stessa radice: tutto quello che sembra autentico è apprezzato, ha valore, è ricercato. L’hipster, così fragilmente alla ricerca della propria autenticità e così in dubbio sulla propria autenticità, si rassicura acquistando e facendo sfoggio di prodotti autentici. L’hipster non a caso è la maggiore espressione culturale della generazione degli anni zero, perché questa generazione cresce in un’insicurezza mai provata prima dalle generazioni precedenti. Precaria nel lavoro, digitalizzata nelle relazioni sociali, questa generazione ha bisogno, anche solo simbolicamente, di ritrovare l’autenticità delle cose.