Hall & Oates chi?

Nove canzoni di due che col pop hanno fatto grandi cose, un po' bistrattate, ma da ieri sono nella "Rock and Roll Hall of fame"

From left, John Oates, G.E.Smith and Daryl Hall perform collectively as Hall and Oates onstage at JFK Stadium in Philadelphia Pa. for the Live Aid famine relief concert July 13, 1985.(AP Photo/Amy Sancetta)
From left, John Oates, G.E.Smith and Daryl Hall perform collectively as Hall and Oates onstage at JFK Stadium in Philadelphia Pa. for the Live Aid famine relief concert July 13, 1985.(AP Photo/Amy Sancetta)

Giovedì 10 aprile, nel corso di una cerimonia al Barclays Center di Brooklyn, Daryl Hall e John Oates – più noti col nome di “Hall & Oates” – sono stati introdotti nella Rock and Roll Hall of Fame (una sorta di pantheon musicale americano in cui si resta a vita, legato all’omonimo museo di Cleveland, in Ohio), insieme a Nirvana, Peter Gabriel, Kiss, Cat Stevens e Linda Ronstadt.
Hall & Oates occuparono a lungo le classifiche di vendita mondiali con una serie di canzonette pop-soul tra gli anni Settanta e Ottanta, sempre un po’ disistimati dai fan del rock duro e puro per la loro svenevolezza e intanto ammirati dagli amanti della grande scrittura pop. Per chi non li conosce e per chi vuole ripassare qui ci sono nove loro canzoni che Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, scelse per il libro Playlist, la musica è cambiata.

Hall and Oates
(1967, Philadelphia, Pennsylvania)
Daryl Hall e John Oates. Diversi come Altai e Jonson: uno alto, biondastro, con l’aria da cowboy, l’altro nanerottolo nero coi baffoni, che pareva di Marsala. Invece erano di Philadelphia («Io sono di Philadelphia…» diceva Diane Keaton in Manhattan). Li mandava Massarini a Mister Fantasy, un po’ alieni in quel tempo di british invasion, ma venivano da molto prima. Sei dischi di platino, decine di pezzi da classifica. Fecero delle canzonette niente male, un bel disco live con i loro maestri soul e poi si sciolsero e ciascun per sé non combinarono niente. Provarono a ricomporsi. Niente.

She’s gone
(Abandoned luncheonette, 1973)
E quante volte l’avrete sentito quest’attacco? In quante altre canzoni?: dzz-dzz-dzz, dzz-dzz-dzz. E il resto? Già “Baby come back” dei Player è uguale (venne cinque anni dopo). Lei lo ha lasciato, tutti son lì a cercare di consolarlo e anche il padre di lei gli ha fatto tutto un pistolotto. Poi lui vede che in bagno c’è rimasto uno spazzolino solo e si deprime ancora di più. Non sarà mai più come prima: non resta che tirarsi su con qualche altra ragazza e farsi soffocare dallo smog (una precoce coscienza sentimental-ecologista: “think I’ll spend eternity in the city, let the carbon and monoxide choke my thoughts away”).

Rich girl
(Bigger than the both of us, 1976)
Con tutto candore decidono che la rima per “you’re a rich girl” sia “it’s a bitch, girl”, nel 1977: e gliene viene il primo posto in hit-parade.

Wait for me
(X-Static , 1979)
“Scusa il disturbo”, non è esattamente un’espressione poetica da canzone romantica (“please forgive all the disturbance I created”), ma il pianoforte e il la-la la-la-la rimediano. La versione dal vivo è più sporca e bella.

Kiss on my list
(Voices, 1980)
L’arrangiamento è datatissimo, e il testo si regge solo sul tentativo fruttuoso di infilare delle rime in “is” (beh? Minghi sulle rime in “ai” e “oi” ci ha costruito una carriera). Ma si canticchia volentieri, dai. Noi. Lei. Io che t’amai. Poi.

You make my dreams
(Voices, 1980)
L’inizio è uguale a “Rich girl”, e vabbè. Seguono gli arditi versi, tenetevi forte: “what I want, you’ve got, but it might be hard to handle. Like the flame that burns the candle, the candle feeds the flame yeah yeah”. Però dove fa “ù-ù, iù meik ma drims camtrù”, funziona. “Private eyes”, tcià! “They’re watchin’ you”, tcià tcià!

Maneater
(H2O, 1982)
Il più grosso successo della loro carriera (che durava ormai da un bel po’): sia l’album che la canzone. Questa cosa della musica panterata e che lei fosse una mangiauomini poteva suonare anche metaforica: ma dove dice “occhio, che ti mastica” diventa un po’ schifosa.

Say it isn’t so
(Rock ‘n soul: pt. 1, 1983)
A questo punto andavano fortissimo, e misero insieme una raccolta di successi con due inediti (questo e “Adult education”). “Say it isn’t so” non arrivò al numero uno in America solo perché c’era “Say, say, say” (un duello dialettico) di Michael Jackson e Paul McCartney e non ci fu verso di tirarla giù, malgrado quattro settimane di assedio. È tutta giocata sulle “o” di “so”, ma la trovata migliore è il cambio di tono nella coda e Daryl Hall che improvvisa.

Out of touch
(Big bam boom, 1984)
Poi si buttarono sul ballabile: sempre con un debole per la roba nera, ma la roba nera più moderna. Arrangiamenti più intensi, remix, giochetti, rap. Ancora rime e rimette: out of touch/out of time, e quel “too much” infilato come una zeppa prima di “out of touch”.

Change of season
(Change of season, 1990)
Fase discendente, almeno dal punto di vista delle vendite. Da quello delle canzoni, avevano sempre fatto le stesse oneste cose. Stavano solo passando di moda. “Ho bisogno di un cambio di stagione” evoca parecchi significati possibili, di conseguenza. Ma nella pratica, sempre una piacevole canzonetta col pianoforte e i coretti soul.

Foto: John Oates, e Daryl Hall con il chitarrista della loro band G.E.Smith al JFK Stadium di Philadelphia per il Live Aid, nel 1985 (AP Photo/Amy Sancetta)