Il Veneto, referendum o no

Dario Di Vico sul Corriere della Sera prova a raccontare le inquietudini della regione, di cui si parla per via di una confusa consultazione online

Il Veneto, nel senso della regione, sta ricevendo molta attenzione in Italia e anche all’estero per via di un “referendum” online sull’indipendenza organizzato dall’associazione Plebiscito.eu. Il referendum si è svolto tra il 16 e il 21 marzo e, secondo i dati forniti dagli organizzatori e non verificati (e anzi molto messi in dubbio), vi hanno partecipato 2 milioni 360 mila persone (cioè circa il 73 per cento degli “aventi diritto”: il Veneto ha un po’ meno di cinque milioni di abitanti). L’89 per cento avrebbe votato “sì” all’indipendenza e la storia del referendum ha avuto una certa eco internazionale negli ultimi giorni, dovuta anche all’attrattiva di Venezia per i lettori stranieri. Alcuni media controllati dal governo russo, poi, hanno paragonato il referendum veneto a quello avvenuto in Crimea. Sabato 22 marzo, sul Corriere della Sera, Dario Di Vico ha provato a raccontare le inquietudini del Veneto, referendum o no.

Il sociologo Roberto Weber non crede che il referendum sia una pagliacciata. E mostra una cartellina datata febbraio 2014 con un sondaggio sull’opinione dei veneti sull’indipendenza territoriale. Un 30% degli intervistati si sente «veneto» prima che europeo (25%) o italiano (44%) e la percentuale è ancora più alta, a sorpresa, tra i giovani 18-24 anni (37%). E alla domanda se l’ipotesi di un Veneto indipendente «ha una base solida e ragionevole» il 43% risponde senza esitazioni sì. Se è vero che quando si parla del Nord Est qualsiasi fenomeno sociale finisce per essere pedissequamente catalogato come «una spia del malessere» (lo stesso era successo a dicembre per i Forconi), il referendum di Busato e soci ha incrociato e canalizzato le inquietudini dei veneti.
Spiega Andrea Bolla, veronese e vicepresidente nazionale della Confindustria: «L’identità territoriale da noi è decisamente più forte che altrove, il saldo entrate-uscite con lo Stato ci penalizza fortemente e abbiamo la sensazione di non essere considerati per quanto valiamo». Sono in ballo, quindi, sentimenti forti che «di volta in volta cercano uno sbocco, anche se come in questo caso avviene sotto forma di un’iniziativa estemporanea». Nel breve è abbastanza facile prevedere che il sondaggio finisca per avvantaggiare il governatore Luca Zaia, che infatti quando ne ha capito le potenzialità lo ha battezzato. Del resto si vocifera che abbia intenzione per le prossime regionali di confezionare una bella lista civica e prendere, seppur indirettamente, le distanze dal deludente Carroccio.

Zaia, del resto, ha fatto dell’empatia la chiave di volta della sua azione politica. Non a caso le classifiche lo danno regolarmente in testa tra i governatori più popolari e l’idea della sinistra di promuovere ministro Flavio Zanonato, per preparare la grande sfida veneta, si è rivelata una boutade. Le lacune di Zaia sono evidenti e si chiamano bassa progettualità. Il governatore è stato sempre attento a non mischiare mai politica e affari perché anche da queste parti in parecchi sono rimasti ustionati. Il suo collega e antagonista Flavio Tosi è finito in fuori gioco per le pesanti inchieste giudiziarie che coinvolgono i suoi più stretti collaboratori e diversi fascicoli nelle procure venete sono dedicati alle commistioni tra imprenditori e amministratori locali. Se la precedente giunta guidata da Giancarlo Galan aveva avuto, come Roberto Formigoni in Lombardia, la presunzione di forgiare l’economia regionale e di spingerla verso la transizione al terziario avanzato, Zaia ha tutt’al più favorito i successi del Prosecco. Sarebbe sbagliato però confinare la frustrazione veneta al solo ambito politico o all’assenza di ministri nel governo Renzi. Anche gli industriali fuori dai loro stabilimenti e fuori delle affollate assemblee hanno dovuto ammettere di contare poco. I grandi progetti che i Bolla, i Tomat, gli Zuccato e i Vardanega hanno chiesto ad alta voce — dalla Tav Milano-Venezia agli investimenti per la banda larga — sono rimasti lettera morta.

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