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  • Lunedì 24 febbraio 2014

«Avere ventiquattro anni è la nuova adolescenza»

Un estratto del primo romanzo di Neige De Benedetti, la storia di una bambina di cinque anni e della sua giovane maestra

di Neige De Benedetti

Tubì, tubì è il primo romanzo di Neige De Benedetti, giovane fotografa milanese (il Post aveva pubblicato queste sue foto di Atene): lo ha pubblicato Sellerio e racconta il rapporto tra una bambina di cinque anni e una nuova supplente della sua scuola – Layla e Andrea, ognuna delle due con una storia complicata – attraverso le alternate versioni dell’una e dell’altra. In questi due estratti è Andrea a parlare.

Ieri sono andata dal dentista. Mi ha tolto il dente del giudizio. Non fa niente. Tutte quelle scene che fa la gente per il dente del giudizio sono penose: non fa male. È una leggenda metropolitana.
Quello che fa male è avere un dente del giudizio, essere vecchi abbastanza, insomma, adulti abbastanza. Io, per esempio, sono abbastanza adulta da avere un dente del giudizio. Che buffona.
Sono uscita da lì con il ghiaccio sulla guancia, erano le tre del pomeriggio, sono andata al bar. Non potevo fumare, avevano detto, ma di bere non aveva parlato nessuno.
Tra i fumi dell’alcol mi è venuto in mente che avere ventiquattro anni è la vera fregatura. È peggio che averne quindici. Avere ventiquattro anni è la nuova adolescenza, signore e signori. Sai ancora meno chi sei, ma non sei nemmeno giustificato dall’età, così difficile, così oscura, così complicata.
 Durante l’adolescenza, lo dicono tutti quei libri insulsi che ti danno da leggere – perché non ti devi sentire solo, ci siamo passati tutti – ti senti in bilico, tra l’infanzia e l’età adulta. Povera piccola crisalide. Be’, te lo dico adesso, adesso che ci sono: era meglio quello.
Non hai più l’età, per essere una crisalide, vecchia mia. Hai l’età del dente del giudizio. Hai l’età per avere un lavoro, un fidanzato – uno serio, per pensare ai figli, per esempio. Hai quell’età lì. Quella in cui, fiore appena sbocciato, t’incammini verso la donna che vuoi essere, verso la vita che vuoi avere, che sta lì, definita davanti a te, e tu, un piede davanti all’altro, un giorno in fila all’altro, ti ci avvicini sempre di più.
Non rientri in questa descrizione, tu, perché sei problematica. Una ragazza problematica. Una giovane donna, direi. Problematica. Senza il dente del giudizio e con un sacco di problemi.
Quando la finirai, di piangerti addosso? Quando comincerai a mettere un piedino davanti all’altro e andare verso la donna che vuoi essere? Ah, ma tu non sai che donna vuoi essere. Tu non sai assumerti le tue responsabilità. Tu non sei una crisalide. Tu, Andrea, non sei niente.
Conversavo così, tra me e me. Un intero pomeriggio. Devo aver mangiato delle patatine, a un certo punto.
 Mi ricordo vagamente di essere entrata in una discoteca, scura, con le luci a intermittenza e una insopportabile musica techno. Devo aver ballato, con gli occhi chiusi e una vodka lemon in mano, in uno di quei bicchieri di plastica che si crepano non appena stringi un po’. Mi sono tagliata un dito, con la plastica del bicchiere. Ho deciso di tornare a casa, insopportabile la mia vita, infinita, indefinita e interminabile.
In bagno non ho trovato un rasoio. Mi sono addormentata sulle piastrelle fredde. Questa mattina era il compleanno di Layla, e io non sono andata all’asilo.
Ho telefonato dicendo che stavo male. Sapessero quanto sto male davvero.
Ho messo giù il telefono con quella sensazione di quando bigi la scuola, sei contenta di averla scampata, sei distrutta dal senso di colpa. Mi tiro il piumone sulla faccia, sto come in un igloo, com’è bello piangere.

*****

Mia madre ha cinquantasei anni.
 È una donna sorridente, rotonda, con i capelli tinti dello stesso color miele da trent’anni, tailleur di Chanel di qualunque color pastello, un filo di perle che sembra sempre lo stesso, ma chiaramente non lo è, e delle orrende calze color carne che si buttano in scarpe anonime.
 Beve uno sherry prima di cena da trent’anni, ma poi più niente.
Da trent’anni è sposata con mio padre, ed è convinta di amarlo.
Da ventiquattro anni mi accusa di averle fatto perdere «quel vitino da vespa che faceva girare la testa ai ragazzi per strada». Queste sì che sono soddisfazioni.

Mio padre è un bell’uomo.
 È alto e secco. Ha i capelli grigi e le guance un po’ scavate. Mette la cravatta anche la domenica.
Parla lentamente e sottovoce.
 Porta piccoli occhiali a mezzaluna.
Non l’ho mai visto senza scarpe, che sono solo Weston’s e più sono vecchie e meglio è; non l’ho mai visto portare una maglietta e non ho mai visto una foto di lui da giovane.
 Mi accoglie senza sorridere, con un bicchiere di vino rosso in mano.
 Da ventiquattro anni accusa mia madre di non avergli saputo dare un maschio, ed è persuaso di non amarla. Chiaramente si sbaglia. Come su quasi tutto.

Ho messo un vestito di ciniglia vermiglia, perché non riesco a farmene una vera ragione, del fatto che non mi amino.
 Prendo nota di ogni minuscola critica per fare meglio la volta dopo.
E perciò ho un vestito, la coda di cavallo, degli orecchini e delle ballerine di vernice. Poco trucco, non puzzo di fumo, non parlo a voce alta, accavallo le gambe nel senso giusto.
E ciò che è patetico di me, è che per una frazione di secondo, o forse molto più tempo, io sono convinta che funzionerà.

Quello che succede durante la cena non lo so. Ho sviluppato delle notevoli doti nell’inserire un pilota automatico che mi permette di avere conversazioni educate senza perdere la calma, l’unica controindicazione è che poi non mi ricordo più niente.
La sola cosa che rimane nella mia memoria sono le belle posate d’argento, i bicchieri di cristallo sui quali il rossetto di mia madre lascia l’unico segno di vita della casa, il lampadario della sala da pranzo, al quale da bambina immaginavo appesi coriandoli colorati, i fiori freschi, e le tende pesanti, che sono utilissime per giocare a nascondino.
 Ogni tanto mi arrivano delle parole chiave, ma non aprono più nessuna porta: responsabilità, lavoro, tua sorella, responsabilità, indipendenza, sciatta, responsabilità, artista. Mi stai ascoltando? Certo che no.

Tornando a casa maledico le mie scarpe, che mi si sfilano dai piedi in continuazione, e mi tolgo di dosso i miei genitori.
 Salgo in casa e mi tuffo nel letto, dormo così, vestita, ciniglia e tutto, a dimostrazione che ci ho provato un’altra volta.

Verso le tre non riesco più a dormire. Penso a Layla e al Signor Nessuno, chissà qual è il suo vero nome.
 Penso a Edoardo, che ha occhi scuri, come un bosco di montagna, e mi piacerebbe entrarci, e sentire l’odore del pino e il terreno di muschio sotto i miei piedi nudi.
Mi rigiro nel letto per un po’. Finché cedo. 20 gocce di Xanax. Buonanotte.
– Edoardo mi ha chiesto di darti questo – mi dice Layla porgendomi un origami. È un uccello bianco. C’è una minuscola scritta. «S’assoir et regarder le ciel».
– Oh, grazie Layla. È molto carino da parte sua – rispondo tutto d’un fiato mangiando la metà delle parole.
– Infatti, credo che vorrebbe essere tuo amico. Sorrido, dentro.
Layla oggi ha una faccia stanca, magari non ha dormito bene nemmeno lei.
– Sei stanca, Layla?
– Sì. Ieri abbiamo mangiato nel vivaio e poi abbiamo messo la musica e ballato molto e poi la mamma ha avuto ancora fame e allora ha rifatto da mangiare per tutti. E poi Edoardo ci ha raccontato di un posto che si chiama Lhasa, che è così tanto in alto che quando ci vai sei più vicino al cielo, e il sole brucia gli occhi. A te piace ballare?
– Mi piace ballare. Sì. – Anche a me.
Penso che Layla tutto sommato ha una vita felice.

Penso che suo padre l’ha lasciata in buone mani, amorevoli e attente. Mi chiedo se le manca, se se lo ricorda. Ma certe domande non sono da porre a chi può darti la risposta.

Il libro che il Signor Nessuno mi ha dato ieri è Il Piccolo Principe. Dapprincipio ci sono rimasta male. Ogni volta che chiedono a un sottosegretario, o a un calciatore, qual è il suo libro preferito, risponde: Il Piccolo Principe. Dev’essere l’unico che hanno letto, forse non hanno letto nemmeno quello, si ricordano delle interviste degli altri. Poi però ci provo.
– Oggi leggiamo una storia, bambini. Si chiama Il Piccolo Principe. Siete d’accordo? Fanno sì con la testa.
– Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato Storie vissute della natura, vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire un animale…
Hanno tutti occhi attenti. E non sembrano annoiarsi.
Ricordo la prima volta che lessi Il Piccolo Principe. Ero più grande di loro, perché sapevo già leggere. Mi mettevo sotto un fico, nella nostra casa al mare, e seguivo con il dito ogni riga, pensavo che non sarei mai stata capace di leggere in un altro modo, che il mio indice fosse per sempre legato al filo d’inchiostro delle lettere. Viaggiavo con lui, su ogni asteroide. E la sera, prima di andare a dormire, facevo disegni sperando che di notte si sarebbero animati, e che anch’io avrei avuto una pecora, e che la pecora sarebbe uscita dalla scatola coi buchi.
Mi vengono in mente i miei genitori, com’erano meravigliosi ai miei occhi infantili. Hanno smesso di amarmi quando ho cominciato a pensare, prima era andato tutto così bene.

Leggiamo solo qualche pagina, non voglio annoiarli. I bambini si annoiano velocemente, bisogna fargli regali poco alla volta, centellinare lo stupore.
Layla dice di no, e forse ha ragione lei. Ma io la penso così.
Domani è sabato, e non c’è scuola. Mi piacerebbe tornare al vivaio con Layla, e ballare con loro fino a tardi e bere cioccolata e guardare le persone che si amano per davvero. Sono sola perché me la sono cercata.
Sono sola perché ho paura degli altri. Ho paura che mi feriscano, o che si facciano ferire da me.
Mi spaventa il contatto.
Dentro le mie mura sono al sicuro, perché nessuno può scalfirmi. È un’armatura fatta di distanze e silenzi la mia.
Difendo il mio feudo, è tutto quello che ho. Mi sento accerchiata, da vampiri e cannibali e combatto costantemente per tenerli fuori dal mio piccolo e fragile angolo di mondo. È una scelta.
È vero, rinuncio a cose che la gente dice essere vitali e immense. Non so cosa voglia dire essere amati, affidarsi a qualcuno, raccontare le proprie angosce, sentirsi capiti. D’altra parte, però, non sono mai stata lasciata, tradita, ferita.
Se niente può toccarmi, niente può uccidermi.
Solo io ho potere su di me. Solo io posso uccidermi.