Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta alcuni economisti provarono a cercare una spiegazione a un dato che sembrava contro-intuitivo: i paesi del mondo che avevano la maggior abbondanza di risorse naturali erano anche quelli più poveri o con i maggiori problemi di distribuzione della ricchezza. L’economista britannico Richard M. Auty inventò nel 1993 una formula che sarebbe diventata molto famosa per descrivere il fenomeno: la “maledizione delle risorse”. Ma altre espressioni descrivono meccanismi simili e poco felici per le economie dei paesi in cui si scoprono all’improvviso grossi giacimenti, come il “male olandese”, il collegamento tra le nuove entrate assicurate dalle risorse naturali e la distruzione del settore manifatturiero di un paese.
La storia recente di molti paesi sembra confermare l’esistenza della maledizione: ma c’è almeno un clamoroso esempio contrario: la Norvegia è il più grande esportatore di petrolio d’Europa e uno dei maggiori del mondo. Secondo le stime del 2010, esporta quotidianamente circa 1,6 milioni di barili, più del doppio del secondo paese europeo della classifica (il Regno Unito). Il paese ha usato la ricchezza del petrolio per trasformare un’economia che nel secondo dopoguerra era ancora basata sul pesce e sullo sfruttamento delle foreste. Ma questa storia è relativamente recente: fino al 1968 la Norvegia nemmeno sapeva di avere del petrolio.
Il successo della Norvegia nello sfuggire alla maledizione è a dir poco clamoroso. Anche se negli anni Sessanta non era certo un paese povero, i dati economici per il 2010, in cui molti paesi europei combattevano contro le conseguenze più dure della crisi, dicono che la Norvegia aveva un avanzo di bilancio del 10 per cento circa del PIL. A questo dato aggiungeva una disoccupazione al 3,3 per cento, un avanzo delle partite correnti del 15,8 per cento e un avanzo della bilancia commerciale di circa 40 miliardi di euro. A tutto questo la Norvegia unisce il primato mondiale in denaro pro capite che dona ai paesi più poveri, mentre le donazioni private sono al sesto posto nel mondo. Secondo i dati della Banca Mondiale la Norvegia ha il terzo reddito pro capite più alto del mondo, dietro al Lussemburgo e il Qatar.
Ci sono due modi di raccontare il successo della Norvegia: il primo è evidenziare il fortunato mix di valori comunitari e individualistici – quella diversità culturale che, in questo periodo di crisi, è ritornata spesso nel dibattito pubblico anche italiano – oppure il fatto che la Norvegia ha solo cinque milioni di abitanti, più o meno come la Sicilia, o ancora il fatto che la sua cultura politica, che certo non si è creata in pochi decenni, la mette sempre tra i paesi più virtuosi in fatto di trasparenza e corruzione (per chi vuole consolarsi dall’invidia, c’è il fatto che gli svedesi fanno sempre barzellette sui norvegesi, ritraendoli come i più stupidi e i più rozzi tra tutti i nordici).
Il secondo, nella nostra cultura che ama le storie di successo, è quello di partire dall’anno in cui per la Norvegia tutto stava per cambiare – il 1968 – e da un geologo in pensione di origini irachene che oggi ha 77 anni, vive nel porto norvegese di Stavenger e si chiama Faruk al-Kasim.
Il 28 maggio 1968, al-Kasim aveva 32 anni. Aveva studiato all’Imperial College di Londra con una borsa dell’Iraq Petroleum Company (IPC), un consorzio delle maggiori società petrolifere mondiali che controllava gran parte dei giacimenti del suo paese di origine e che aveva acconsentito, anche se malvolentieri, a formare qualche giovane locale. Al-Kasim era andato a studiare geologia petrolifera e aveva incontrato nel Regno Unito una ragazza alla pari norvegese, Solfrid, con cui si era sposato. Tornato in Iraq era stato assunto dall’IPC, dove si era fatto strada fino a un ruolo dirigenziale, il più alto raggiunto da un iracheno in una società petrolifera dominata da dirigenti britannici. Ma qualche anno dopo aveva dovuto prendere una decisione difficile: licenziarsi, abbandonare l’Iraq e trasferirsi con la famiglia nella terra d’origine della moglie, in modo da assicurare cure più adeguate per il più giovane dei suoi tre figli, che era paraplegico.
Per abbandonare il suo lavoro ben pagato a Basra, nel sud dell’Iraq, al-Kasim era dovuto andare a Londra, al quartier generale dell’IPC, e da lì aveva preso un aereo per Oslo, dove era arrivato quel 28 maggio. Il treno per la città dove vivevano i genitori di Solfrid, dove programmava di restare fino a quando non avesse trovato un altro lavoro di qualche tipo, era solo alle sei e mezzo del pomeriggio: al-Kasim decise di passare le molte ore che aveva davanti andando a fare una visita alla sede del Ministero dell’Industria. Aveva in programma di chiedere se ci fossero società petrolifere in Norvegia e se qualcuna di loro cercasse per caso un geologo.
Al-Kasim fu decisamente fortunato. Il Financial Times descrisse così quel giorno, in un articolo di Martin Sandbu che ha portato per la prima volta la sua storia sulla stampa internazionale nell’agosto 2009:
Depositò il suo bagaglio e camminò fino al ministero, dove fu ricevuto da un funzionario piuttosto confuso che gli disse di tornare nel pomeriggio. Quando ritornò, aspettandosi solo una lista di indirizzi, parecchie persone lo stavano aspettando. «Erano curiosi di sapere quale fosse stato il mio lavoro, che tipo di istruzione avessi, per chi avevo lavorato. Ero stato un ingegnere petrolifero? Un geologo? Che cosa facevo?» La sua richiesta per un elenco di possibili datori di lavoro si era trasformata in un colloquio di lavoro improvvisato. «Dovevano avere un bisogno tremendo di gente esperta», dice al-Kasim. E lo avevano, infatti.
Quello che al-Kasim non sapeva era che il ministero dell’Industria avesse bisogno di un geologo esperto per valutare i dati di una serie di test di trivellamento effettuati nei mesi precedenti nel Mare del Nord. Da circa cinque anni, infatti, le autorità norvegesi avevano avviato alcuni progetti esplorativi, ma fino ad allora non si era trovata traccia di petrolio: anche perché il settore petrolifero del ministero aveva solo tre impiegati, tutti sulla trentina. Al-Kasim passò tre mesi a interpretare i risultati di tredici pozzi di esplorazione.