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  • Giovedì 30 gennaio 2014

Il petrolio della Norvegia

La storia notevole di come è diventato uno dei paesi più ricchi del mondo, e perché molto si deve all'intuito di un geologo iracheno

di Giovanni Zagni – @giovannizagni

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta alcuni economisti provarono a cercare una spiegazione a un dato che sembrava contro-intuitivo: i paesi del mondo che avevano la maggior abbondanza di risorse naturali erano anche quelli più poveri o con i maggiori problemi di distribuzione della ricchezza. L’economista britannico Richard M. Auty inventò nel 1993 una formula che sarebbe diventata molto famosa per descrivere il fenomeno: la “maledizione delle risorse”. Ma altre espressioni descrivono meccanismi simili e poco felici per le economie dei paesi in cui si scoprono all’improvviso grossi giacimenti, come il “male olandese”, il collegamento tra le nuove entrate assicurate dalle risorse naturali e la distruzione del settore manifatturiero di un paese.

La storia recente di molti paesi sembra confermare l’esistenza della maledizione: ma c’è almeno un clamoroso esempio contrario: la Norvegia è il più grande esportatore di petrolio d’Europa e uno dei maggiori del mondo. Secondo le stime del 2010, esporta quotidianamente circa 1,6 milioni di barili, più del doppio del secondo paese europeo della classifica (il Regno Unito). Il paese ha usato la ricchezza del petrolio per trasformare un’economia che nel secondo dopoguerra era ancora basata sul pesce e sullo sfruttamento delle foreste. Ma questa storia è relativamente recente: fino al 1968 la Norvegia nemmeno sapeva di avere del petrolio.

Il successo della Norvegia nello sfuggire alla maledizione è a dir poco clamoroso. Anche se negli anni Sessanta non era certo un paese povero, i dati economici per il 2010, in cui molti paesi europei combattevano contro le conseguenze più dure della crisi, dicono che la Norvegia aveva un avanzo di bilancio del 10 per cento circa del PIL. A questo dato aggiungeva una disoccupazione al 3,3 per cento, un avanzo delle partite correnti del 15,8 per cento e un avanzo della bilancia commerciale di circa 40 miliardi di euro. A tutto questo la Norvegia unisce il primato mondiale in denaro pro capite che dona ai paesi più poveri, mentre le donazioni private sono al sesto posto nel mondo. Secondo i dati della Banca Mondiale la Norvegia ha il terzo reddito pro capite più alto del mondo, dietro al Lussemburgo e il Qatar.

Ci sono due modi di raccontare il successo della Norvegia: il primo è evidenziare il fortunato mix di valori comunitari e individualistici – quella diversità culturale che, in questo periodo di crisi, è ritornata spesso nel dibattito pubblico anche italiano – oppure il fatto che la Norvegia ha solo cinque milioni di abitanti, più o meno come la Sicilia, o ancora il fatto che la sua cultura politica, che certo non si è creata in pochi decenni, la mette sempre tra i paesi più virtuosi in fatto di trasparenza e corruzione (per chi vuole consolarsi dall’invidia, c’è il fatto che gli svedesi fanno sempre barzellette sui norvegesi, ritraendoli come i più stupidi e i più rozzi tra tutti i nordici).

Il secondo, nella nostra cultura che ama le storie di successo, è quello di partire dall’anno in cui per la Norvegia tutto stava per cambiare – il 1968 – e da un geologo in pensione di origini irachene che oggi ha 77 anni, vive nel porto norvegese di Stavenger e si chiama Faruk al-Kasim.

Il 28 maggio 1968, al-Kasim aveva 32 anni. Aveva studiato all’Imperial College di Londra con una borsa dell’Iraq Petroleum Company (IPC), un consorzio delle maggiori società petrolifere mondiali che controllava gran parte dei giacimenti del suo paese di origine e che aveva acconsentito, anche se malvolentieri, a formare qualche giovane locale. Al-Kasim era andato a studiare geologia petrolifera e aveva incontrato nel Regno Unito una ragazza alla pari norvegese, Solfrid, con cui si era sposato. Tornato in Iraq era stato assunto dall’IPC, dove si era fatto strada fino a un ruolo dirigenziale, il più alto raggiunto da un iracheno in una società petrolifera dominata da dirigenti britannici. Ma qualche anno dopo aveva dovuto prendere una decisione difficile: licenziarsi, abbandonare l’Iraq e trasferirsi con la famiglia nella terra d’origine della moglie, in modo da assicurare cure più adeguate per il più giovane dei suoi tre figli, che era paraplegico.

Per abbandonare il suo lavoro ben pagato a Basra, nel sud dell’Iraq, al-Kasim era dovuto andare a Londra, al quartier generale dell’IPC, e da lì aveva preso un aereo per Oslo, dove era arrivato quel 28 maggio. Il treno per la città dove vivevano i genitori di Solfrid, dove programmava di restare fino a quando non avesse trovato un altro lavoro di qualche tipo, era solo alle sei e mezzo del pomeriggio: al-Kasim decise di passare le molte ore che aveva davanti andando a fare una visita alla sede del Ministero dell’Industria. Aveva in programma di chiedere se ci fossero società petrolifere in Norvegia e se qualcuna di loro cercasse per caso un geologo.

Al-Kasim fu decisamente fortunato. Il Financial Times descrisse così quel giorno, in un articolo di Martin Sandbu che ha portato per la prima volta la sua storia sulla stampa internazionale nell’agosto 2009:

Depositò il suo bagaglio e camminò fino al ministero, dove fu ricevuto da un funzionario piuttosto confuso che gli disse di tornare nel pomeriggio. Quando ritornò, aspettandosi solo una lista di indirizzi, parecchie persone lo stavano aspettando. «Erano curiosi di sapere quale fosse stato il mio lavoro, che tipo di istruzione avessi, per chi avevo lavorato. Ero stato un ingegnere petrolifero? Un geologo? Che cosa facevo?» La sua richiesta per un elenco di possibili datori di lavoro si era trasformata in un colloquio di lavoro improvvisato. «Dovevano avere un bisogno tremendo di gente esperta», dice al-Kasim. E lo avevano, infatti.

Quello che al-Kasim non sapeva era che il ministero dell’Industria avesse bisogno di un geologo esperto per valutare i dati di una serie di test di trivellamento effettuati nei mesi precedenti nel Mare del Nord. Da circa cinque anni, infatti, le autorità norvegesi avevano avviato alcuni progetti esplorativi, ma fino ad allora non si era trovata traccia di petrolio: anche perché il settore petrolifero del ministero aveva solo tre impiegati, tutti sulla trentina. Al-Kasim passò tre mesi a interpretare i risultati di tredici pozzi di esplorazione.

Arrivò all’inattesa conclusione che al largo delle coste norvegesi ci fosse un sacco di petrolio, ma quasi nessuno gli dette retta. Le autorità erano estremamente scettiche e quasi tutte le società petrolifere stavano lasciando il paese, dopo anni di esplorazioni che non avevano portato a nulla. Ma nel dicembre 1969, la più tenace, la grande società americana Phillips Petroleum, trovò per la prima volta il petrolio nell’area di Ekofisk, che dopo qualche giorno venne dichiarata uno dei più grandi giacimenti offshore del mondo. I particolari sono ancora più avventurosi: il pozzo di esplorazione era l’ultimo rimasto tra quelli autorizzati dal governo, la Phillips Petroleum voleva risparmiarsi la fatica di trivellare, ma la Norvegia fece sapere che non fare le esplorazioni sarebbe costato loro una multa salatissima. Così la società concluse che era più economico trivellare.

In un’intervista con Lisa Margonelli pubblicata martedì 28 gennaio sul sito del magazine Pacific Standard, che ha raccontato la sua storia, al-Kasim dice che tra le prime reazioni dei politici norvegesi, quando seppero con certezza che i giacimenti c’erano davvero, ci fu il timore per l’improvviso arrivo di multinazionali straniere e di una montagna di soldi. Al-Kasim, dalla sua passata esperienza, non poteva che essere d’accordo: «Avevo vissuto l’agonia di essere un fantoccio dell’imperialismo», dice ancora oggi.

Margonelli, che ha scritto un libro sul processo di produzione del petrolio, spiega che al-Kasim aveva molto chiare davanti a sé le due strade per gestire i proventi del petrolio: lasciare il campo libero alle società internazionali – e questa scelta non funzionava – oppure metterle fuori legge, come avevano fatto molti paesi del Medio Oriente tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Neppure questo funzionava: concentrare la gestione del petrolio nelle mani di pochi autoctoni non era in fondo troppo diverso da lasciarla all’“imperialismo”. Di lì a poco al-Kasim avrebbe trovato una soluzione.

Diciotto mesi dopo la scoperta del primo giacimento, al-Kasim e un collega andarono in ritiro una settimana in una casa isolata in campagna e, tra una gita per la pesca e l’altra, scrissero su incarico del governo un progetto per risolvere la questione più importante: come gestire tutto quel petrolio. La loro idea era creare una società controllata dallo stato, Statoil, in modo da dare lavoro ai norvegesi e sviluppare competenze locali nel settore; e creare allo stesso tempo un organismo di controllo totalmente indipendente, il Direttorato Petrolifero Norvegese. Le società straniere avrebbero potuto continuare a sfruttare il petrolio norvegese, diversamente dai paesi mediorientali che avevano seguito la strada del monopolio, ma le attività del settore sarebbero state regolate dal Direttorato, con attenzione particolare alle conseguenze ambientali e, se necessario, scontrandosi con Statoil.

Le autorità scelsero di mettere in pratica il progetto di al-Kasim: la base del successo norvegese, spiega Margonelli.

La chiave era che, a differenza della maggior parte dei produttori di petrolio, il governo norvegese usò i soldi dei cittadini per finanziare metà dell’investimento – e prendere metà dei rischi – nello sviluppo dei pozzi. Con interessi in gioco, la Norvegia poteva far sì che le società petrolifere provassero innovazioni finanziariamente rischiose. Quando i profitti cominciarono ad arrivare sul serio, negli anni Novanta, il paese li mise in un fondo in attesa del momento in cui i pozzi si sarebbero esauriti. La Norvegia fu anche deliberatamente lenta nel permettere l’apertura di nuovi pozzi, usandoli come un incentivo da concedere in cambio di pratiche innovative.

Il Direttorato Petrolifero, che ha dovuto combattere a lungo per ottenere un potere in grado di bilanciare realmente quello di Statoil, e dove al-Kasim passò a lavorare per due decenni come uno dei dirigenti principali, pone oggi l’obiettivo dell’inquinamento zero per la trivellazione: questo fa sì che pochissimi agenti chimici dannosi siano scaricati nel Mare del Nord dai pozzi norvegesi. Per anni al-Kasim ha insistito perché venissero sviluppate tecnologie per sfruttare a fondo i pozzi, una personale convinzione che ha fatto sì che, mentre la media dello sfruttamento dei giacimenti nel resto del mondo è intorno al 25 per cento, con il resto che rimane nel sottosuolo, in Norvegia la percentuale arriva al 45 per cento.

Il fondo sovrano norvegese, amministrato dalla banca centrale ma di proprietà del ministero delle Finanze, è il più grande del mondo: possiede circa l’un per cento del mercato azionario mondiale e proprietà in giro per il mondo. Dagli anni Novanta vi arriva ogni dollaro ottenuto dalla vendita di petrolio, con una ridotta percentuale che può essere reinvestita ogni anno dallo stato. Pochi giorni fa il fondo ha superato il valore complessivo di 5 migliaia di miliardi di corone, oltre 600 miliardi di euro e il 183 per cento del PIL del paese, una notizia che è stata ripresa dalle agenzie di stampa internazionali con la suggestiva sintesi che ciascuno dei 5 milioni di norvegesi è diventato potenzialmente un milionario.

In Norvegia un quinto dei giovani riceve qualche tipo di sussidio statale e i sussidi per gli agricoltori sono così generosi che nel Circolo polare artico le stalle sono riscaldate per consentire un allevamento del bestiame che sarebbe altrimenti antieconomico. C’è chi dice però che il successo della Norvegia non sia solo una benedizione: nel paese si è sviluppato uno strano modello economico – per ora senz’altro funzionante – con un pesante intervento statale che l’Economist ha paragonato a quello cinese. I proventi del petrolio pesano per circa il 30 per cento del bilancio annuale dello stato e stanno facendo sentire qualche sintomo del “male olandese” all’economia del paese, dato che il costo medio del lavoro è salito fino a raggiungere il doppio di quello dell’Unione Europea. I prezzi degli immobili continuano a salire a ritmi come il 7 per cento del 2012. Ma davanti ai problemi che affronta la vicina area euro, il futuro di un paese che ha da parte un milione di corone norvegesi per abitanti sembra comunque assicurato.

Foto: AP Photo/Doug Mellgren