Gli ultimi giorni di Lenin

L'uomo definito "il più importante leader politico del XX secolo" morì novant'anni fa dopo una lunghissima e terribile malattia

Il 21 gennaio del 1924, 90 anni fa, morì Vladimir Ilyich Ulyanov, meglio conosciuto come Lenin, “l’uomo politico più importante del XX secolo” secondo l’Enciclopedia Britannica. Lenin fu il leader della Rivoluzione russa, il primo capo di stato della Russia sovietica e l’inventore del marxismo-leninismo, la dottrina che per più di ottant’anni avrebbe guidato l’Unione Sovietica e ispirato i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo. Quando morì, a causa di una gravissima forma di arteriosclerosi, da due anni era diventato incapace di leggere, bloccato a letto o su una sedia a rotelle, seguito dalla moglie in ogni momento, costretto come un bambino a imparare nuovamente a scrivere a e parlare. Aveva 53 anni.

Il treno di Lenin
Vladimir Ilyich Ulyanov non sarebbe mai diventato Lenin se il 9 aprile del 1917 non avesse preso un treno. All’epoca in Russia lo zar era già caduto. La “rivoluzione di febbraio” lo aveva deposto e sostituito con un governo di socialisti moderati che consideravano Lenin e il suo partito, i bolscevichi, dei pericolosi estremisti. Lenin e gli altri capi bolscevichi erano costretti a vivere in esilio in Svizzera, mentre a San Pietroburgo si decideva il destino politico del paese. Tra Lenin e la Russia c’era l’intera Europa impegnata nella Prima guerra mondiale.

Fu il governo tedesco, nemico della Russia, a decidere di mettere Lenin su un treno per San Pietroburgo. All’epoca la Germania era in guerra con la Russia a est e con Francia e Regno Unito a ovest. Gli strateghi tedeschi, ansiosi di chiudere almeno uno dei due fronti, pensarono che spedire in Russia il capo dei rivoluzionari più estremisti e finanziare la sua campagna politica fosse un buon modo per far crollare definitivamente il paese. Lenin, considerato una testa calda rivoluzionaria, avrebbe ulteriormente messo nei guai il governo Kerensky e probabilmente costretto la Russia a ritirarsi dalla guerra.

Il loro piano ebbe un successo inaspettato e spettacolare. Lenin salì a bordo del treno a Berna il 9 aprile 1917. Attraversò la Germania e da lì arrivò in Svezia, un paese all’epoca neutrale. Da Stoccolma prese un secondo treno e il 16 aprile, poco prima di mezzanotte, scese nella stazione di San Pietroburgo, in Russia. Nel giro di sette mesi Lenin rovesciò il governo Kerensky durante la famosa rivoluzione di ottobre, instaurò il primo regime socialista nella storia e firmò la pace con la Germania.

La scena dell’assalto al Palazzo d’Inverno, il momento più importante della rivoluzione di ottobre, dal film Ottobre! di Sergej Ejzenštejn

Volodya
Vladimir Ilyich Ulyanov, o, come lo chiamavano gli amici più intimi, Volodya, il diminutivo di Vladimir, nacque da una famiglia di funzionari pubblici il 22 aprile del 1870. I suoi biografi non sono d’accordo nello stabilire il momento in cui Volodya divenne un rivoluzionario. Uno degli episodi più importanti in questo percorso fu quando nel 1887 suo fratello Alexander, membro di un gruppo di terroristi di estrema sinistra, fu condannato a morte e ucciso per aver cercato di assassinare lo zar Alessandro III. Un anno prima il padre era morto a causa di un’emorragia celebrale e Lenin rinunciò alla fede ortodossa. Pochi anni dopo era entrato a far parte di alcuni circoli rivoluzionari, nel 1893 fu arrestato per la prima volta e spedito in esilio in Siberia per tre anni. A quell’epoca Volodya era probabilmente già divenuto Lenin. Un uomo che, come scrisse nel 1910 un suo avversario politico:

Per ventiquattro ore al giorno è impegnato nella rivoluzione, non ha altri pensieri oltre alla rivoluzione e quando dorme non sogna altro che la rivoluzione.

Tornato in Russia dopo l’esilio, Lenin divenne uno dei leader principali della rivoluzione del 1905 e fuggì di nuovo due anni dopo, quando le forze zariste riuscirono a fermare la rivolta. Nel periodo successivo mise a punto la sua dottrina, quella che divenne nota come marxismo-leninismo: l’idea che la rivoluzione socialista dovesse essere guidata da una ridotta avanguardia di rivoluzionari di professione. Dieci anni dopo mise in pratica quella dottrina, quando insieme a un folto gruppo di uomini della sua “avanguardia rivoluzionaria” scese nella stazione di San Pietroburgo.

Il primo ictus
A metà del 1921 la rivoluzione russa aveva vinto. Con grande sorpresa di tutto il mondo, e probabilmente degli stessi leader bolscevichi, i rivoluzionari erano riusciti a far crollare il governo Kerensky, a firmare una pace separata con la Germania, a instaurare una dittatura e un regime socialista. Nel frattempo erano sopravvissuti a una guerra civile, a un intervento delle potenze straniere, a una fallita invasione della Polonia, a una serie di rivolte contadine e a una carestia, iniziata casualmente ma poi molto peggiorata, che uccise circa 5 milioni di persone.

Nel 1921 c’erano ancora scontri con le cosiddette “guardie bianche” – i controrivoluzionari monarchici – e le rivolte dei contadini, ma Lenin e la sua avanguardia di rivoluzionari di professione avevano un altro ordine di problemi. Anche se i combattimenti non erano finiti, la guerra era ormai vinta: restava da mandare avanti uno stato. Questo fu probabilmente il periodo in cui Lenin fu sottoposto alle pressioni più forti. Un buon esempio del tipo di lavoro che doveva affrontare è dato dalla sua agenda del 21 giugno 1921 – un giorno assolutamente ordinario.

Alle 11 di mattina arrivò a Mosca dalla sua residenza di Gorki e incontrò immediatamente il Politburo, l’organo più importante del partito comunista. All’ordine del giorno della riunione c’erano: mettere ordine nel partito, la carestia, il terzo congresso del Comintern, alcune questioni fiscali, la visita di un senatore americano, il congresso del partito di Mosca, che sarebbe avvenuto entro poche settimane, la proposta del governo cinese di consegnare alcune “guardie bianche”, la conferma dell’ambasciatore a Berlino e molte altre questioni. Il Politburo aveva in genere tra le 20 e le 40 questioni simili da discutere a ogni riunione. Durante una pausa Lenin si dedicò al suo passatempo favorito: dettare note e lettere. Quel giorno ne dettò una dozzina che riguardavano temi come l’approvvigionamento di cibo nel nord del Caucaso, leggi agrarie e politiche del lavoro. Dopo aver finito di dettare si dedicò alla lettura della corrispondenza e alla firma di documenti finanziari, leggi e permessi di vario genere.

Come in passato aveva ammesso lui stesso, Lenin non era fatto per reggere questo tipo di stress. Fin da giovane era stato una persona emotiva. Si agitava facilmente e altrettanto facilmente cadeva in uno stato di agitazione febbrile: diventava pallido, il suo umore era nervoso e irritabile, parlava in fretta e in maniera concitata. Nel 1917 scrisse alla sorella: «Riesco a malapena a lavorare perché non riesco a tenere sotto controllo i miei nervi». Non sopportava che qualcuno parlasse, si alzasse o facesse rumore mentre parlava ed erano famose le sue sfuriate quasi isteriche durante il Politburo non appena percepiva una minima mancanza di attenzione. Si racconta che gli desse particolarmente fastidio il suono del violino.

Nonostante la sua bassa tolleranza allo stress, Lenin insisteva per occuparsi di tutto. Osservatori contemporanei scrissero che aveva una vera e propria ossessione per minuzie di cui spesso pretendeva di occuparsi in prima persona. Nell’immensa amministrazione dello stato, aveva creato delle vere e proprie commissioni per occuparsi dei piccoli affari (popolarmente erano chiamate “commissioni vermicelli”). Nell’estate del 1921 probabilmente era già malato, anche se non è tuttora del tutto chiaro quale fosse la sua patologia. Alcuni hanno ipotizzato una forma di sifilide. Probabilmente era affetto da una debolezza genetica del sistema vascolare del cervello (diverse persone nella sua famiglia morirono a causa di ictus o aneurismi). Lo stress che gli procurava l’enorme quantità di potere che aveva accumulato, e la sua mania di controllare ogni aspetto della politica russa, probabilmente fecero peggiorare rapidamente la sua malattia.

Nel corso della primavera del 1922 i mal di testa di Lenin si fecero più gravi, più lunghi e più dolorosi. Il 26 maggio del 1922 Lenin ebbe un ictus che lo lasciò incapace di parlare e di muoversi per diversi giorni. La notizia non fu pubblicata e persino nella cerchia più alta del partito veniva diffusa informalmente. In quei giorni Leon Trotsky, uno dei più importanti leader del partito, considerato da molti l’erede naturale di Lenin, scrisse nelle sue memorie: «Come potevamo credere che Lenin potesse ammalarsi e morire esattamente come un uomo normale?».

12×7
L’agonia di Lenin durò due anni mezzo. Per almeno un anno, quando ancora riusciva a parlare e leggere, rimase al centro della vita del partito o almeno ci provò. In quell’anno si pose due obiettivi: purgare (cioè esiliare o uccidere) la classe degli intellettuali russi (quella che lui definiva “la merda” del paese) e stabilire la sua successione, possibilmente impedendo a Josif Stalin, un altro dei leader più importanti del partito, di diventare il leader del paese dopo la sua morte. Sfortunatamente per la Russia gli riuscì soltanto il primo obbiettivo.

Per tutto il 1922 Lenin fu considerato il leader dell’Unione Sovietica: quando lo andavano a trovare nella sua villa di Gorkj, i leader comunisti lo avvicinavano ancora con il timore e la reverenza che si riservava a un capo duro e imprevedibile. I suoi consigli erano ascoltati, le sue linee politiche seguite in maniera precisa. In quei giorni Stalin era probabilmente uno dei pochi ad aver capito che Lenin non si sarebbe mai ripreso.

La salute di Lenin, infatti, era definitivamente compromessa – una cosa che non si poteva certo esprimere ad alta voce se non si voleva finire nei sotterranei della Lubjanka, il quartiere generale della polizia segreta fondata da Lenin. Lenin riprese l’uso della parola poche settimane dopo l’ictus ma perse per sempre molte altre facoltà. Nell’estate del 1922 i suoi medici gli chiesero di moltiplicare dodici per sette. Lenin non fu in grado di dare la risposta. La cosa lo sconvolse e quando i medici lo lasciarono solo trascorse le tre ore successive a cercare di risolvere il problema. Alla fine ci riuscì: la sorella trovò un foglio di carta sui cui Lenin aveva scritto: 12+12 = 24, 24+12 = 36 e così via.

Quando provava a scrivere, non otteneva risultati migliori. I suoi medici dissero che un giorno Lenin aveva coperto 21 pagine di scarabocchi infantili e incomprensibili. Mai in nessun momento Lenin pensò che questi problemi potessero portarlo alle dimissioni dai suoi incarichi e a ritirarsi alla vita privata. Nei giorni in cui aveva dimenticato come si scriveva e come risolvere un problema da terza elementare, Lenin organizzò la grande purga degli intellettuali, che portò alla deportazione di 200 tra artisti e scrittori e alla fucilazione di molti altri.

La telefonata
Nel corso dell’estate e dell’inverno del 1922 Lenin continuò a frequentare le riunioni politiche, anche se non con la frequenza e l’intensità di prima della malattia. A novembre tenne il suo ultimo discorso in pubblico. È curioso notare come nei resoconti scritti dai membri del Politburo in quei giorni si cerchi di sottolineare in maniera ossessiva che Lenin “parlava in maniera chiara” oppure che “sembrava riposato”. Buona parte della leadership sovietica aveva capito che oramai Lenin non avrebbe più potuto guidare il paese. In molti però non lo ammettevano nemmeno a sé stessi. Lenin era più sincero e dopo il suo ultimo discorso in pubblico raccontò alla sorella che a un certo punto aveva completamente dimenticato cosa aveva detto fino a un attimo prima e come avrebbe dovuto proseguire il discorso.

Stalin era probabilmente uno dei pochi ad aver accettato la situazione e stava lavorando intensamente per assicurarsi la successione a Lenin. Secondo alcuni storici già dal 1920 aveva messo le cose in modo da eliminare il suo rivale principale, Trotzky, non appena Lenin fosse morto. Di sicuro, nel corso del 1922 Stalin si era assicurato la successione e lo dimostrò molto chiaramente. Nell’estate del 1922 il Politburo, su consiglio dei medici, decise di tenere Lenin isolato dalla politica: nessuno doveva più informarlo su quello che accadeva a Mosca o cercare il suo consiglio. Stalin fu incaricato di mantenere la quarantena.

Tra il 15 e il 20 dicembre 1922 Lenin ebbe un secondo ictus, che lo lasciò di nuovo paralizzato e incapace di parlare per diverse settimane. Il 23 dicembre Stalin venne a sapere che la moglie di Lenin, Nadezhda Krupskaya, non aveva rispettato gli ordini di tenere Lenin isolato dalla vita politica. Krupskaya pensava che la politica era l’unica cosa in grado di tenere in vita suo marito. Nonostante gli ordini di Stalin continuò ad aiutarlo a scrivere lettere e note indirizzate ai vari membri del partito, a leggergli i giornali e a tenerlo informato su quello che accadeva in Russia. Quando venne a saperlo, Stalin telefonò a Krupskaya. Stando ai racconti, fu una telefonata particolarmente agitata e drammatica, e la moglie di Lenin alla fine era disperata.

Non si sa cosa si dissero i due. Secondo alcune ricostruzioni Stalin la aggredì con ferocia per aver rotto la quarantena imposta dal partito a suo marito. «Dividere il letto con lui» avrebbe detto Stalin, «non ti dà il diritto a decidere per lui. [Lenin] appartiene al partito molto più che a te». Secondo alcuni Stalin aveva usato l’espressione “dividere il cesso”, anziché “dividere il letto”, e aveva chiamato Krupskaya “una puttana”. Lenin non venne a sapere della conversazione fino al marzo del 1923. I medici, che non avevano idea di cosa stesse succedendo, scrissero che quel giorno Lenin aveva subito “un inspiegabile peggioramento delle sue condizioni”.

Congresso-congresso
L’incidente al telefono convinse Lenin che Stalin non era la persona giusta a cui affidare la sua successione. Nelle sue ultime lettere, scritte tra il dicembre del 1922 e il gennaio del 1923, Lenin aveva lasciato le sue ultime volontà: linee guida per una riforma del partito e personali opinioni sui vari leader. Non fu tenero con nessuno, ma fu particolarmente duro con Stalin e lasciò intendere che Trotsky era il successore più adatto. Il testamento di Lenin, come vennero ribattezzate quelle lettere, fu facilmente neutralizzato da Stalin, che oramai controllava di fatto l’intera macchina del partito (anche Trotsky, per via delle critiche di cui era oggetto nelle lettere, contribuì a non dare troppa pubblicità al testamento, dando così un aiuto fondamentale a Stalin nel liberarsi di lui).

Quando scrisse il testamento, in ogni caso, Lenin ancora non sapeva della telefonata. Nel marzo del 1923 la moglie gli raccontò l’episodio (era il giorno in cui medici notarono un “inspiegabile” peggioramento delle sue condizioni). In risposta, scrisse a Stalin una lettera durissima in cui lo minacciava di interrompere ogni relazione con lui se non si fosse scusato con la moglie. La risposta di Stalin fu altrettanto dura. Scrisse che aveva fatto ciò che doveva essere fatto e che se era necessario si sarebbe scusato, ma che non riteneva di aver fatto nulla di sbagliato. Lenin non riuscì mai a rispondergli. Il 9 marzo ebbe l’ultimo ictus. Divenne incapace di parlare e con la parte destra del corpo completamente paralizzata.

Da quel giorno quasi nessuno dei leader comunisti andò più a trovarlo. A volte i leader del partito si facevano portare alla sua villa di Gorki e da lontano lo osservavano mentre veniva portato a passeggio nel parco sulla sua sedia a rotelle. Capitava spesso che in quei momenti vedessero sua moglie mentre cercava di insegnargli nuovamente a parlare. Lenin non recuperò mai la facoltà di parlare, ma per qualche mese riuscì ad esprimersi con una specie di linguaggio dei segni e qualche monosillabo. Lo scrittore Martin Amis, nel suo libro Koba il terribile, fece notare che in quella situazione il leader rivoluzionario poteva contare su una piccola consolazione. Quei pochi monosillabi che riusciva a pronunciare erano comunque monosillabi politici: contadino, proletario, popolo, rivoluzione e, soprattutto, sezd-sezd, “congresso-congresso”.

La fine
Dopo il terzo ictus Lenin visse per quasi un anno. Molti leader sovietici nelle loro memorie e nei loro discorsi hanno raccontato di intensi e illuminanti colloqui con Lenin durante quei mesi. Si tratta, quasi in ogni caso, di invenzioni propagandistiche: il tentativo di accreditarsi come leninisti fino alla fine dopo la morte del grande leader. Uno di questi esempi di propaganda postuma è il racconto che fece una delle sue guardie del corpo. Nell’autunno del 1923, raccontò, a Gorki fu recapitata una poltrona come regalo da parte del partito comunista inglese. Lenin, secondo il racconto, osservò per un po’ la poltrona e quindi fece il nome di un vecchio compagno che aveva perso le gambe durante la guerra civile: «Mandiamogli la poltrona! Lui non può più camminare, mentre io della poltrona non ho ancora bisogno». In realtà difficilmente in quei giorni Lenin poteva ricordare una cosa avvenuta la mattina stessa ed era oramai incapace di esprimere qualunque concetto coerente. Una descrizione più affidabile di quel periodo viene da un pittore invitato a Gorki per fare un ritratto di Lenin.

[…] adagiato sulla poltrona, avvolto in una coperta e guardando verso di noi con il sorriso storto, impotente e infantile di un uomo nella sua seconda infanzia, Lenin poteva servire soltanto come illustrazione della sua malattia e non certo come modello per un ritratto.

Nel dicembre del 1923 Lenin sembrava avere fatto dei progressi. Con l’aiuto di un bastone e di una persona era tornato in grado di camminare per pochi passi. Ma se la sua condizione fisica sembrava migliorare, non c’erano segni di un miglioramento nelle sue facoltà mentali. A ottobre Lenin fece capire nel suo linguaggio di segni e monosillabi che desiderava fare una visita a Mosca. Visto che le sue condizioni, almeno quelle fisiche, sembravano essere migliorate, i medici lo accontentarono. Nessuno si fece trovare a Mosca ad accoglierlo. Lenin fu portato a fare una visita nelle sale riunioni deserte, fu portato nel suo studio abbandonato dove scelse alcuni libri da portare via con sé (li scelse probabilmente in modo del tutto casuale, visto che da mesi era incapace di leggere). Fu portato a fare un giro per la città e poi alla fiera dell’agricoltura e dei lavori manuali, ma visto che pioveva i medici decisero di osservarla in macchina, dall’esterno. La sera, dopo aver chiamato il Cremlino e aver avvertito dei libri presi da Lenin, il gruppo ritornò a Gorki.

Pochi mesi dopo, la notte del 20 gennaio 1924 Lenin ebbe l’ultimo attacco. Sua moglie descrisse così quella sera.

[Dopo aver fatto bere a Lenin del brodo e del caffé] Cominciammo a sentire un gorgoglio uscire dal suo petto. I suoi occhi sembravano sempre meno coscienti. [I suoi attendenti] lo stavano tenendo fisicamente seduto, lui si lamentava di tanto in tanto, il suo corpo tremava, all’inizio ho tenuto la sua mano calda e umida, ma dopo ho soltanto guardato l’asciugamano che diveniva rosso di sangue e i segni della morte sul suo volto pallido. Il professor Foerster e il dottor Yelistratov provarono a fargli la respirazione artificiale, ma invano. Non era più possibile salvarlo.

Lenin morì alle 18.50 del 21 gennaio 1924, tre mesi prima del suo 54esimo compleanno, a due anni e mezzo dal primo ictus. I medici che effettuarono l’autopsia si stupirono di quanto fosse vissuto a lungo e del fatto che fosse riuscito a mantenere una minima capacità comunicativa. Il rapporto dell’autopsia è estremamente esplicito.

La sclerosi del sistema circolatorio del suo cervello era arrivata al punto che alcuni vasi sanguigni erano completamente calcificati. Quando colpiti dagli strumenti del chirurgo facevano il suono della pietra. Le pareti di molti vasi si erano così ispessite che nemmeno un singolo capello poteva essere inserito nelle aperture. Per questo motivo intere parti del cervello di Lenin non ricevevano sangue fresco.

Per decenni questi dettagli sulla fine del leader dell’Unione Sovietica furono nascosti all’opinione pubblica. Il corpo di Lenin fu esposto per cinque giorni e fu visitato da quasi un milione di persone. Subito dopo cominciò il difficilissimo processo di imbalsamazione del suo corpo, che tuttora è conservato in un mausoleo sulla Piazza Rossa di Mosca (ironicamente, fu proprio Lenin che alcuni anni prima aveva ordinato di aprire i sarcofaghi e le tombe dei santi per mostrare ai russi che la conservazione miracolosa dei loro corpi era soltanto una leggenda).

L’ultimo sforzo di Lenin, impedire a Stalin di succedergli, fallì completamente. Poco dopo la sua morte Stalin prese la guida del partito ed in pochi anni divenne il padrone assoluto della Russia, iniziando un’epoca di terrore, carestie, deportazioni ed esecuzioni su una scala enormemente più ampia di quella mai immaginata da Lenin. Il primo ministro britannico Winston Churchill, che pure era molto critico nei suoi confronti, scrisse che soltanto Lenin avrebbe potuto impedire alla Russia di imboccare quella tragica strada: «La più grande sfortuna della Russia è stata la nascita di Lenin. La seconda è stata la sua morte».

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