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  • Lunedì 25 novembre 2013

La partita più bella di George Best

La raccontò lo stesso Best – calciatore amatissimo e personaggio leggendario che morì quattro anni fa – in un vecchio libro appena ripubblicato in Italia

Il 25 novembre 2005 morì a Londra, a causa di un’infezione epatica, uno dei calciatori più forti e leggendari di sempre: George Best. Ancora oggi se andate a Belfast, dove nacque nel 1946, oltre ad atterrare al George Best Airport (l’unico aeroporto al mondo dedicato ad un calciatore), potrebbe capitarvi di sentire un gioco di parole che ben riassume la sua grandezza e il segno che ha lasciato nell’immaginario dei tifosi: “Maradona good, Pelé better, George Best”.

Best iniziò a giocare ad alti livelli da giovanissimo, dopo che un osservatore del Manchester United lo vide in una squadra locale: mandò subito un telegramma alla sede del Manchester, scrivendo “Penso di aver trovato un genio”. Debuttò in campionato col Manchester a 17 anni nel 1963 e nel giro di cinque anni vinse una Coppa d’Inghilterra, due campionati, una Coppa dei Campioni e il Pallone d’oro, segnando tantissimo.

Best veniva chiamato “the fifth Beatle”, e non solo per il fatto che portasse i capelli lunghi: fu probabilmente il primo calciatore della storia ad attirare un’incredibile attenzione mediatica attorno alla sua vita, fatta di belle donne, feste, macchine sportive. Dopo la fine della sua carriera attirarono attenzione soprattutto i suoi problemi di salute, dovuti a una gravissima dipendenza dall’alcol: fu arrestato diverse volte e nel 2002, a 56 anni, subì un trapianto di fegato. Non riuscì mai a smettere di bere e morì tre anni dopo. La sua frase in assoluto più famosa circola ancora moltissimo: «I spent a lot of money on booze, birds and fast cars. The rest I just squandered» («Ho speso molti soldi in alcool, ragazze e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato»).

Baldini e Castoldi ha appena ripubblicato in versione tascabile “The Best”, il libro che lo stesso Best scrisse per raccontare la sua vita e la sua carriera. Nell’estratto che segue, Best racconta quella che è considerata la più bella partita che abbia mai giocato. Lisbona, 9 marzo 1966, quarti di finale di Coppa dei Campioni, Benfica contro Manchester United.

***

In campionato continuavamo a non combinare granché, ma tutti pensarono che quello potesse essere il nostro anno nella Coppa dei Campioni dopo che raggiungemmo i quarti di finale e battemmo il Benfica in casa per 3 a 2 nella partita di andata. Dato ciò che sarebbe successo in seguito, le istruzioni che Matt ci diede prima della partita a Lisbona sarebbero entrate nella mitologia del calcio: «Andateci piano per i primi venti minuti».

Quell’indicazione in realtà era estremamente sensata. Le squadre inglesi hanno avuto per molto tempo delle difficoltà a giocare in Europa perché rifiutavano di adattarsi al ritmo degli avversari e pensavano che giocando con la frenesia delle partite di campionato avrebbero spaventato e sconfitto i continentali. Nella maggior parte dei casi questa tattica era un suicidio contro squadre con una grande esperienza e una grande capacità di restare in possesso di palla per lungo tempo. Oltretutto il Benfica, che aveva vinto la coppa nel 1961 e nel 1962 ed era arrivato in finale nel 1964-65, non aveva mai perso in casa una partita della Coppa dei Campioni e quando sentivi l’atmosfera del loro stadio ne capivi subito il motivo: conteneva quasi il doppio del pubblico dell’Old Trafford e i tifosi portoghesi erano scatenatissimi. In confronto al casino che facevano loro, lo stadio di Wembley durante la finale di FA Cup sembrava quasi un convento. C’erano fuochi d’artificio, razzi e cori. Si aspettavano che la loro squadra ci facesse a pezzi.

La maggior parte degli spettatori neutrali non ci dava molte chance di pareggiare, per non dire di portarci a casa una vittoria, anche perché nel Benfica giocava Eusebio, uno dei migliori giocatori al mondo. Probabilmente Matt, come tutti noi, pensava anche all’umiliante sconfitta per 5 a 0 che avevamo subito due anni prima dall’altra squadra di Lisbona, lo Sporting. Lisbona era una città bellissima, ma a noi non suscitava ricordi troppo piacevoli.

Il Benfica scaldò il proprio pubblico consegnando a Eusebio il premio di Calciatore Europeo dell’Anno prima dell’inizio della partita, tanto per farci sapere chi ci saremmo trovati di fronte. Mentre uscivo dal tunnel e sentivo il rumore dello stadio mi si rizzavano i capelli in testa come era successo prima del mio esordio contro il West Brom. Ma non avevo paura. Non ero intimorito. Non avevo alcuna premonizione su come avrei giocato – è una cosa che non puoi mai dire prima – ma sapevo di essere pronto. Sapevo che, comunque fosse andata la partita, quello era il genere di campo per cui ero fatto. Lo stadio, il campo di gioco, era tutto perfetto. Era un teatro perfetto.

Seguimmo le istruzioni di Matt e ci andammo piano. Almeno per i primi sei minuti. Facevamo molto pressing e quando prendevamo la palla facevamo in modo di tenerla il più a lungo possibile. Poi Bobby venne messo a terra mentre tentavamo un contropiede e per il nostro difensore Tony Dunne si presentò un’ottima occasione di mettere la palla in area su punizione. Ci riversammo nell’area di rigore del Benfica, io mi misi al limite dell’area e quando saltai per prendere la palla due difensori saltarono insieme a me. Sentii che anche il portiere stava iniziando a uscire per provare a respingere di pugno, ma con un colpo di reni riuscii ad arrivare sulla palla per primo. Quando la colpii di testa seppi di averla presa bene, ma non riuscivo a vedere in che direzione era andata e fu solo quando rimisi i piedi a terra e mi girai che mi accorsi di averla messa in rete. Fu una sensazione fantastica. Non era solo la gioia per avere fatto goal davanti a una folla del genere, ma anche il fatto che quella rete ci avrebbe dato un po’ di respiro.

Ora avevamo delle possibilità reali di ottenere il risultato che volevamo. Così sei minuti più tardi, quando ricevetti la palla all’inizio della metà campo avversaria, non vidi alcun motivo per essere negativo. Scartai di lato, dribblai un difensore e da quel momento seppi che avrei segnato. Un secondo difensore correva verso di me ma io lo superai e fu come se stessi guardando l’azione alla moviola e ne conoscessi già l’esito finale. Dopo essermi lasciato alle spalle il secondo difensore alzai lo sguardo e vidi il portiere che mi si avvicinava. Normalmente in una situazione del genere prima di muovermi avrei aspettato che mi fornisse un indizio sulla direzione che avrebbe preso. Di solito un movimento anche minimo del corpo può farti capire cosa sta per fare un portiere, ma quella volta colsi l’incertezza nel suo sguardo e invece di aspettare lo scartai prima che riuscisse a prendere una decisione.

Nei filmati in televisione fanno sempre vedere il momento in cui faccio scivolare la palla in rete, come se qualcuno me l’avesse piazzata lì e io non dovessi fare altro. Ma la cosa fu ben più difficile e – se penso alla situazione, alle circostanze e all’importanza di quella partita – quel goal è uno dei miei preferiti. Poco dopo, mentre la partita proseguiva in un silenzio attonito, misi ancora la palla in rete, ma il goal fu annullato per fuorigioco. Poi partii con un’altra azione da lontano. Presi la palla sull’ala sinistra, scartai un difensore, poi un altro e un altro ancora, saranno stati quattro o cinque. «George, qui, George!» mi urlava Bobby perché gli passassi la palla, ma io volevo fare tutto da solo.

A mano a mano che mi si presentava davanti un difensore, sembrava sempre più probabile che mi rubasse la palla e io sentivo di dover lottare per non spezzare il ritmo della corsa, come succede nei sogni quando stai cercando di scappare da qualcuno. Ma ogni volta arrivavo sulla palla per primo, la lanciavo un metro o due alle spalle dell’avversario, andavo a riprenderla e ricominciavo da capo. Alla fine un difensore riuscì a prendermi la palla, ma quell’azione era stata una cosa fantastica. Era come un’esperienza extracorporea, una sequenza di sogno, come se io volassi sopra il campo e guardassi qualcun altro giocare.

Quando ripenso a quell’azione la rivedo sempre al rallentatore. Era come quando resti sveglio di notte prima di una partita e ti immagini sul campo a fare numeri incredibili. Anche i giocatori professionisti fanno sogni del genere e, come chiunque altro, il modo in cui immagini di giocare nei sogni si trasforma raramente in realtà sul campo. Ma quella sera per noi andava tutto alla perfezione. Quelle cose le stavamo facendo davvero e in una sera come quella tutti diventano qualcosa in più. I bravi giocatori diventano grandi giocatori e i grandi giocatori diventano dei. Era come una vibrazione che si diffondeva in tutta la squadra. Bell Foulkes, il nostro grande mediano centrale, di solito doveva solo allontanare la palla dalle zone di pericolo, non gli si chiedeva di fare passaggi. E invece era lì che serviva tutti come Franz Beckenbauer e affrontava addirittura gli avversari. Era surreale. Ho visto altre grandi squadre giocare a quel modo, ma prendere parte a un’esperienza del genere è davvero una cosa irreale.

Stranamente, nonostante sia in grado di rivedere nella mia mente quasi tutti i novanta minuti di quella partita, non ricordo nulla di ciò che successo dopo il fischio finale. Non ricordo gli spogliatoi, l’albergo in cui dormivamo, ciò che fecero in seguito i tifosi portoghesi. Non saprei dire perché, dato che ricordo perfettamente la maggior parte delle nostre trasferte, le stanze che ci assegnavano, i pasti, addirittura i nomi dei camerieri. Ma per quanto riguarda Lisbona quei particolari sono svaniti dalla mia memoria, forse perché ero totalmente preso dalla mia prestazione. Ricordo vagamente anche l’intervallo, a parte il fatto che eravamo felicissimi e Matt ci diceva di stare attenti, che la partita non era finita. Per assicurarmi che lo fosse nel secondo tempo servii una palla goal a John Connelly e – dopo un’autorete di Shay Brennan – segnarono anche Pat Crerand e Bobby Charlton. Vincemmo per 5 a 1. Una cosa incredibile.

La stampa la definì la migliore prestazione di tutti i tempi per una squadra inglese su un campo straniero e noi non avevamo alcuna intenzione di negare la cosa. Geoffrey Green scrisse sul «Times»: «Best è sembrato da subito innamorarsi della palla e tutta la squadra lo ha seguito». Del mio secondo goal disse: «Il portiere ha rilanciato la palla a metà campo, Herd l’ha respinta di testa e ha trovato Best che, volando come un tenebroso fantasma oltre tre difensori, ha infilato la palla in rete… un goal eccezionale!» La stampa inglese fu fantastica, ma fu il giornale portoghese «Bola» a battezzarmi El Beatle, perché ero un inglese con i capelli lunghi. Quel soprannome mi sarebbe rimasto appiccicato per un bel po’. Il giorno dopo all’aeroporto comprai un grande sombrero, il più grande che si potesse trovare.

Non sono mai stato un grande buffone, ma ero talmente su di giri che mi feci trasportare dall’euforia. Indossavo un soprabito di pelle nera e quando arrivammo a Manchester mi misi in testa il mio nuovo sombrero. La nostra vittoria aveva fatto notizia nel Paese e quella foto apparve sulle prime pagine di molti giornali. Era la prima volta che finivo in prima pagina e fu un’esperienza strana, che enfatizzò ancora di più l’atmosfera surreale dei giorni precedenti, anche se da quel momento in poi si trattava di una realtà con cui avrei dovuto convivere. I giornali avevano iniziato a seguirmi dopo la partita contro il Chelsea, ma la vittoria con il Benfica mi fece fare un salto di qualità. Tutti sembrarono impazzire. Ebbi addirittura una mia rubrica personale sul «Daily Express» e la gente voleva sapere tutto su di me. Non solo quello che pensavo sul calcio, ma anche che vestiti portavo, che musica mi piaceva, quali locali frequentavo. All’improvviso tutto ciò che facevo era diventato «in». Fuori dai campi di gioco il mondo sembrava impazzito. La beatlemania era al suo apice e per la prima volta i giovani avevano come star dei musicisti che avevano più o meno la loro stessa età. Dopo i bacchettoni anni Cinquanta i costumi si stavano decisamente rilassando. I ragazzi volevano esprimere le proprie emozioni e dopo che la stampa inglese ebbe modificato il mio soprannome in «il Quinto Beatle» divenni immediatamente una figura di riferimento per i giovani, un’icona (per quanto sia difficile pensare a se stessi in questi termini).

Sei giorni dopo la partita con il Benfica ebbi un assaggio della follia che stava per scatenarsi. Un mio amico che lavorava nel settore tessile, Malcolm Mooney, mi aveva già convinto a diventare suo socio in un negozio di abbigliamento maschile a Sale, che noi chiamavamo Edwardia. La fortuna volle che l’inaugurazione avvenisse subito dopo la mia grande partita. Sapevamo che dopo il clamore della partita di Lisbona si sarebbe trattato di una cosa molto più in grande di quanto avessimo pensato, ma non ci aspettavamo certo ciò che sarebbe successo. Due ore prima dell’inaugurazione c’erano quattrocento ragazzine che picchiavano sulle vetrine. Fu ancora più surreale di quello che era successo allo stadio di Lisbona: era impossibile!

George Best con Roy Collins
The Best
Traduzione dall’inglese di Fabio Paracchini
© 2001 by George Best
© 2002 Baldini&Castoldi S.p.A.
© 2013 Baldini&Castoldi s.r.l.- Milano