Durante la Prima guerra mondiale, il reparto sanitario dell’esercito degli Stati Uniti notò che diversi soldati provenienti da alcuni stati del paese avevano più difficoltà ad allacciarsi il colletto dell’uniforme rispetto agli altri: soffrivano infatti di quella condizione patologica nota come “gozzo”, che si verifica quando la tiroide, una ghiandola produttrice di ormoni che aderisce alla laringe, tende a gonfiarsi e a creare una specie di ispessimento alla base del collo. Alla fine della guerra il Dipartimento della Difesa diffuse un rapporto chiamato “Malattie riscontrate negli uomini chiamati alle armi”, in cui venne riportato che il numero di soldati con il gozzo provenienti dagli stati lontani dal mare – come il Montana o l’Idaho – era di 40 o 50 volte superiore rispetto a quelli costieri.
Oggi si pensa che anche i dati sul quoziente intellettivo dei soldati variassero con lo stesso schema, che cioè quelli provenienti dagli stati interni fossero in media meno intelligenti di quelli che venivano da stati sulla costa. Anni dopo la Prima guerra mondiale, infatti, si scoprì che a causare le variazioni era la scarsa presenza, in alcune alimentazioni, dello iodio, una sostanza chimica senza la quale la tiroide tende a gonfiarsi e il cervello ad espandersi di meno. Lo iodio, presente in grandi quantità nelle acque degli oceani, viene naturalmente portato dalla pioggia nei terreni coltivati vicini alla costa. In questo modo viene assunto sia dalle piante che dagli animali della zona, e quindi naturalmente integrato nella dieta degli abitanti del posto.
A causa di questa scoperta, nel 1924 alcuni dirigenti del Dipartimento della Sanità fecero pressione sulla Morton Salt Company, una delle più grosse società che producevano sale da cucina, affinché introducessero una piccola quantità di iodio nei loro prodotti: lo stesso metodo negli anni è stato utilizzato anche in alcuni paesi in via di sviluppo, dove ha permesso di alzare fino a 13 punti il quoziente intellettivo medio delle persone nate in seguito all’introduzione del sale “corretto”. Oggi sappiamo che un adulto ha bisogno di assumerne circa 150 microgrammi al giorno, per evitare una disfuzione della tiroide e consentire una corretta espansione del cervello.
Malcolm Gladwell, popolare giornalista e sociologo canadese, si è chiesto sull’ultimo numero del New Yorker cosa sarebbe successo se uno studente proveniente dall’Idaho avesse partecipato a una competizione scolastica – una gara di spelling, un test di cultura generale – con uno del Maine (uno stato costiero); e se sarebbe stato giusto, in un caso come quello, cercare di ridurre lo svantaggio iniziale dello studente dell’Idaho, che nella sua vita non aveva avuto occasione di assumere iodio nella giusta quantità – e che quindi aveva buone probabilità di partire sfavorito nella competizione.
Muovendo da questa introduzione verso un particolare approccio al tema del doping nello sport, Gladwell definisce l’intervento del Dipartimento della Sanità americana e l’aggiunta di iodio «una modifica dell’ordine naturale delle cose» e si occupa di altri casi del genere, nei quali il confine fra ingannare col doping e ridurre lo svantaggio genetico naturale è molto poco chiaro.
Tommy John
David Epstein, uno scrittore americano che ha recentemente pubblicato il libro The Sports Gene: Inside the Science of Extraordinary Athletic Performance su questi temi, ha raccontato che a partire dal 2008 l’oculista Louis Rosenbaum ha condotto negli Stati Uniti una ricerca sulle capacità visive di quasi 400 giocatori professionisti di baseball, tra le cui doti deve esserci la rapidità nel percepire l’arrivo di una palla a grande velocità. Rosenbaum ha scoperto che in media i giocatori riescono a distinguere a sei metri di distanza quello che una persona con una capacità visiva nella media percepisce solo a quattro metri. La Major League Baseball, la più importante federazione americana di baseball, consente infatti che un giocatore possa sottoporsi a un intervento chirurgico per migliorare la propria vista, sia mediante un intervento con la tecnologia laser sia con un trapianto di lenti artificiali.
La MLB permette inoltre che i lanciatori possano ricostruire chirurgicamente il legamento ulnare del braccio che usano per lanciare la palla, una particolare membrana simile a un tendine che tende spesso a infiammarsi, nei lanciatori, per via del particolare movimento alla quale è costantemente sottoposta: in alcuni casi viene asportata e sostituita con parte del legamento di un’altra parte del corpo dell’atleta, mentre in altri viene trapiantato un tendine proveniente da un cadavere.
Il primo che fece questo tipo di intervento fu Tommy John, uno dei migliori lanciatori americani di sempre: John decise di operarsi nel 1974, quando aveva 31 anni e aveva già vinto 124 partite da professionista. All’epoca la probabilità di ristabilirsi completamente dopo l’operazione era dell’1 per cento. John ci riuscì, e dopo 18 mesi tornò a giocare: si ritirò nel 1989 a 46 anni, e in seguito all’operazione vinse altre 164 partite. Da allora la ricostruzione del legamento ulnare è anche detta “l’operazione Tommy John”, e le probabilità di una guarigione completa sono vicine al 90 per cento.
Kalenji
Epstein, nel libro, prova a rispondere anche ad una domanda piuttosto comune riguardo ai moltissimi atleti neri che da decenni vincono le competizioni più importanti di corsa sulle lunghe distanze, e cioè come fanno ad essere costantemente più forti degli altri. La risposta è che hanno una struttura fisica più adatta a quel tipo di corsa: più precisamente, spiega Epstein, è una questione di massa corporea delle gambe. È stato stimato infatti che una quantità maggiore di peso nelle gambe e nei piedi influisce negativamente sulla corsa molto di più rispetto a quello “trasportato” dalla parte superiore del corpo.