La marcia su Washington

Quando Martin Luther King disse «I have a dream» e 200 mila persone manifestarono pacificamente per chiedere la fine della segregazione

La mattina del 28 agosto 1963, almeno 200 mila persone si radunarono a Washington per partecipare ad una delle più grandi marce politiche che gli Stati Uniti avessero mai visto. Ad organizzarla erano stati i sei leader delle principali organizzazioni per la lotta per i diritti civili, tra cui Martin Luther King Jr., pastore protestante e attivista politico che allora aveva 34 anni.

Al culmine della marcia King rivolse alla folla un lungo discorso scandito dalla ripetizione di una frase che poi sarebbe entrata nella storia e nella cultura popolare di tutto il mondo: «I have a dream». La data della marcia era stata scelta in coincidenza col centenario dell’approvazione del Proclama di Emancipazione, che sanciva la liberazione di tutti gli schiavi nei territori confederati.

Quell’anno la rivista Time avrebbe scelto Martin Luther King come personaggio dell’anno e nel 1964 il leader ottenne il Premio Nobel per la Pace. Aveva appena 35 anni, fu l’uomo più giovane a ricevere questo riconoscimento. Martin Luther King tenne il suo ultimo discorso a Memphis nel 1968, il giorno prima di essere assassinato da James Earl Ray, un razzista che gli sparò con un fucile di precisione alla testa mentre King si trovava sul balcone della stanza di un motel.

L’estate del 1963
Il nome completo della manifestazione era “Marcia su Washington per il lavoro e la libertà”. Non era la prima marcia che veniva organizzata dal movimento per i diritti civili, soltanto negli ultimi mesi c’erano state 1.340 manifestazioni in più di 200 città, ma era la più ambiziosa. All’epoca in diversi stati del sud degli Stati Uniti era ancora in vigore la segregazione razziale, mantenuta in piedi dalle cosiddette “leggi Jim Crow“. Uno degli obiettivi della marcia era proprio appoggiare l’approvazione di una legge che avrebbe impedito ogni forma di segregazione.

Secondo molti, tra cui l’amministrazione del presidente Kennedy, nell’estate del 1963 la questione razziale era pronta a tramutarsi in una vera rivoluzione. Molte delle centinaia di manifestazioni organizzate dal movimento per i diritti civili erano state pacifiche, ma molte altre erano diventate scontri e vere proprie rivolte. Inoltre, accanto al movimento pacifico capeggiato da King e dagli altri leader, c’erano gruppi che avevano esplicitamente rinunciato alla nonviolenza per portare avanti la battaglia per l’equità dei diritti.

Questa situazione portò spesso le autorità di polizia, i politici più conservatori e molti cittadini americani a ritenere che il movimento per i diritti civili e le manifestazioni violente fossero inevitabilmente la stessa cosa. Quando venne annunciata una manifestazione a Washington si diffuse una gran paura. Alcuni politici dissero che la capitale non aveva corso un rischio così grande da quando era stata minacciata dall’esercito del Generale Lee durante la Guerra di Secessione.

Televisioni e giornali diffusero molti allarmi contro quello che sarebbe potuto accadere durante la marcia, evocando disordini, scontri e saccheggi. Pochi giorni prima della manifestazione, durante il popolare programma televisivo Meet the press, alcuni giornalisti avevano incalzato King e altri leader del movimento, domandando come potessero essere sicuri di impedire alla marcia di degenerare in una serie di scontri con la polizia.

Molti abitanti di Washington condividevano le paure. Nelle prime ore del mattino del 28 agosto, a parte i manifestanti che si stavano radunando intorno al Washington Monument, la città appariva deserta. Gli uffici federali erano stati chiusi e gli impiegati invitati a restare in casa.  Molti altri avevano preso un giorno di ferie dal lavoro e avevano lasciato la città. In centro, i negozi erano chiusi e i marciapiedi vuoti. La vendita di alcolici era stata proibita in tutta Washington per 24 ore: era la prima volta dai tempi del proibizionismo.

In previsione degli scontri erano stati schierati in città quasi seimila poliziotti, rinforzati da duemila uomini della guardia nazionale e da diverse migliaia di soldati tenuti di riserva e pronti a intervenire. Uomini dell’FBI e dei servizi segreti erano posizionati sulla cima del Lincoln Memorial per controllare la manifestazione dall’alto mentre più di 150 infiltrati erano stati inviati in mezzo ai manifestanti che si stavano radunando. Nei giorni precedenti tutte le attività di sorveglianza dei leader del movimento erano state intensificate – anche il telefono di King era sotto controllo.
A quasi tutti gli ufficiali di polizia locale del paese era stato chiesto di comunicare quante persone sarebbero arrivate a Washington dalla loro comunità e quanti di loro fossero comunisti. Nelle carceri più vicine alla capitale erano stati liberati centinaia di posti in previsione di una grande quantità di arresti mentre gli ospedali si erano preparati a gestire i feriti rimandando le operazioni chirurgiche programmate meno urgenti.

Kennedy e il Civil Rights Act
Gran parte di queste misure erano state prese per ordine del presidente John Fitzgerald Kennedy e dei suoi consiglieri, tra cui suo fratello Bob, procuratore generale. Kennedy all’epoca era considerato un pragmatico intenzionato a trattare la questione razziale come un problema da risolvere in modo politico. Non era stato un campione dei diritti civili e non ne aveva mai fatto una bandiera della sua amministrazione. Prendere una decisione netta sul tema poteva portare alla rottura del Partito Democratico, che all’epoca era diviso tra liberal del nord e segregazionisti del sud.

Nell’estate del 1963 divenne chiaro che la presidenza Kennedy rischiava di finire identificata con quella che sarebbe stata la sua risposta alla questione dei diritti civili. Kennedy decise quindi di appoggiare il movimento e il 19 giugno 1963 inviò al congresso il testo del Civil Rights Act, una legge che se fosse stata approvata avrebbe reso illegale gran parte delle forme di discriminazione in vigore al sud.

Quando per la prima volta era stata ipotizzata l’idea di una marcia del movimento per i diritti civili a Washigton, Kennedy si era opposto. Lo scopo del Civil Rights Act era in parte proprio quello di togliere il movimento dalle strade, cercare una soluzione politica, e ridurre il numero di manifestazioni, contro le quali Kennedy era accusato di essere troppo morbido. Ma l’opposizione di Kennedy non fu sufficiente a bloccare la marcia.

Anche i leader del movimento dei diritti civili erano preoccupati dalla possibilità che ci fossero disordini e avevano preso alcune precauzioni. Centinaia di volontari, soprattutto poliziotti e vigili del fuoco in licenza, erano stati incaricati di compiere il servizio d’ordine per la manifestazione e di proteggere i leader del movimento. Uno di loro era il vigile del fuoco Robert Boyd, uno dei numerosi partecipanti alla marcia che hanno raccontato al New York Times i loro ricordi. Boyd ha spiegato che qualche giorno prima della marcia venne contattato da un membro di un’associazione di vigili del fuoco di colore che gli chiese di partecipare a quello che chiamò «un incontro». Boyd si consultò con sua moglie, che all’epoca lavorava in banca, e le disse: «Non ho voglia di farmi coinvolgere in questa roba dei diritti civili». Lei rispose: «Roba dei diritti civili? Se tu hai il tuo lavoro, se io ho un mio lavoro, se abbiamo questa casa è merito di “quella roba dei diritti civili”». Boyd decise di partecipare. Come Boyd molti altri pensavano che partecipare alla manifestazione sarebbe stato pericoloso. Dick Esseks ha raccontato che quando la moglie gli disse che intendeva andarci si sentì «terrorizzato. Lei era una ragazza adorabile e non volevo che le sparassero. C’erano già stati dei morti al sud».

La marcia
Alla fine anche Esseks venne convinto dalla moglie a partecipare e la mattina del 28 agosto arrivò a Washington insieme ad altre migliaia di persone. Una decina di treni speciali e 21 voli charter erano stati organizzati per portare i manifestanti a in città, mentre treni e aerei regolari erano già stati riempiti al massimo delle loro capacità. Alle otto di mattina la polizia segnalava che ogni ora entravano a Washington 450 bus. In tutto durante la giornata ne sarebbero arrivati più di 2.000 insieme a migliaia di automobili.

Il luogo del raduno era stato fissato intorno al Washington Monument, l’obelisco alto 169 metri al centro della città. La marcia avrebbe dovuto percorrere circa metà del National Mall, il parco monumentale che collega Capitol Hill, dove ha sede il Congresso degli Stati Uniti, con il Lincoln Memorial. Il percorso era lungo un chilometro e la marcia sarebbe terminata davanti al monumento dedicato a Lincoln, dove i leader del movimento avrebbero tenuto un comizio.

All’ora prevista per l’inizio della manifestazione i dieci principali leader del movimento erano ancora in riunione con alcuni membri del congresso. E senza che nessuno avesse dato l’ordine, il corteo cominciò a muoversi lentamente verso il Lincoln Memorial, con Joan Baez e Bob Dylan che cantavano in testa alla manifestazione: altri personaggi del mondo dello spettacolo stavano arrivando, tra gli altri gli attori Marlon Brando e Charlton Heston. Quando al Congresso arrivò la notizia che la manifestazione aveva cominciato a muoversi senza di loro, i leader del movimento si affrettarono a raggiungere la testa della manifestazione.

Fu l’unico impiccio di tutta la giornata. La folla si radunò ordinatamente intorno al Lincoln Memorial per ascoltare gli interventi dei leader del movimento. Il comizio cominciò con l’inno americano, eseguito dalla famosa cantante gospel Marian Anderson. Parlarono i vari oratori, interrotti da alcuni momenti di preghiera. Cantarono anche Bob Dylan, Joan Baez e Mahalia Jackson.

L’ultimo a parlare fu Martin Luther King. Il suo discorso, quello in cui pronunciò le famose parole «I have a dream» e che divenne uno dei più celebri della storia, fu il momento culminante della manifestazione. Ma il Washington Post, che naturalmente più di ogni altro giornale americano si è molto dedicato in questi giorni al cinquantenario, ha raccontato anche in una severa autocritica di come allora “bucò” incredibilmente il valore di quel discorso, non citandolo in nessuno dei suoi molti articoli e ignorando Martin Luther King, concentrandosi soprattutto sull’andamento pratico della giornata.

Gli oratori scesero dal palco e la folla cominciò a disperdersi. Non c’era stato nemmeno un incidente e durante tutta la giornata soltanto tre persone, tutti bianchi, vennero arrestate. Un convoglio di limousine del governo attendeva i leader del movimento per portarli alla Casa Bianca ad incontrare il presidente Kennedy e discutere del Civil Rights Act. Kennedy accolse King stringendogli la mano e ripetendo le sue parole di poco prima: «I have a dream». Kennedy non avrebbe mai visto l’approvazione del Civil Rights Act, che sarebbe entrato in vigore il 2 luglio del 1964, otto mesi dopo il suo assassinio.

E poi?
La marcia fu un successo straordinario. Il carattere di scontro e rivolta che non ebbe, altri leader del movimento per i diritti civili lo auspicavano. Malcom X, che non partecipò, la definì con un gioco di parole “Farce on Washington” (la farsa su Washington). Ma King e gli altri leader fecero dal palco di Washington richieste molto precise al governo: la fine della segregazione razziale nelle scuole, la protezione dagli abusi della polizia per gli attivisti, uno stipendio minimo di 2 dollari all’ora per tutti i lavoratori e una efficace legiferazione sul tema dei diritti civili.

Grazie all’impegno di Martin Luther King e e a quello del movimento, negli anni seguenti furono approvate leggi molto importanti per tutelare i diritti degli afroamericani come il Voting Rights Act e il Civil Rights Act. Quel che non è cambiato, da allora, sono le disparità economiche che dividono bianchi e neri. «La condizione dei neri dopo la marcia non è cambiata economicamente. Certo, la povertà è diminuita per tutti, ma la proporzione tra i neri e i bianchi poveri è più o meno la stessa di 50 anni fa», cioè tre volte superiore. Lo ha spiegato William Darity Jr. professore della Duke University in un lungo articolo del Washington Post in cui ci si chiede che cosa, da quel 28 agosto, sia effettivamente cambiato.

La percentuale di neri di età superiore ai 25 con diploma di scuola superiore è più che triplicato così come è aumentato il numero di neri che si sono laureati e che hanno incarichi di lavoro come amministratori delegati nelle aziende. Eppure, le disparità economiche sono rimaste per lo più invariate e, in alcuni casi, sono cresciute. Nel 1963, un afroamericano guadagnava 55 centesimi per ogni dollaro guadagnato dai bianchi. Nel 2011 il guadagno è salito a soli 66 centesimi per ogni dollaro. Il tasso di disoccupazione media degli afroamericani tra il 1963 e il 2012 era dell’11,6 per cento, più del doppio rispetto al tasso di disoccupazione tra i bianchi nello stesso periodo di tempo. Il tasso di povertà tra i neri, nel 1959, era del 55,1 per cento, è sceso al 32,2 per cento nel 1972, ma da allora i progressi sono stati lenti: nel 2011, il 27,6 per cento delle famiglie afroamericane restano nella fascia di reddito più bassa, quasi il triplo del tasso tra i bianchi (9,8 per cento).

Il Washington Post spiega come il presidente Obama non abbia fatto abbastanza per cancellare le disparità economiche razziali, spingendo invece sull’aumento della scolarizzazione, l’accesso alle università e l’ampliamento delle coperture sanitarie. Secondo il professor William Darity Jr, un modo per aggirare questo tipo di discriminazione sarebbe quello di stabilire un programma federale di assunzioni dirette. «Questa idea» ha ammesso «è poco più di un sogno». Uno dei leader del movimento politico per i diritti civili degli afroamericani, subito dopo la marcia su Washington, scrisse: «La lotta ha avuto inizio con il problema degli autobus, in una parola, con il problema della dignità. Ma dal momento che le radici della discriminazione sono economiche, a lungo andare, gli afroamericani, come tutti gli altri, non potranno raggiungere la dignità senza un lavoro. Le questioni economiche sono destinate ad emergere, con implicazioni di vasta portata».

Restano poi, quotidiane, le ricadute delle discriminazioni economiche e psicologiche nelle vite dei neri meno benestanti: i quartieri neri più degradati, i maggiori sospetti e le persecuzioni da parte della polizia e delle autorità. La storia recente dell’omicidio di Trayvon Martin, delle sue implicazioni, del dibattito e delle manifestazioni sul suo significato, lo ha appena raccontato di nuovo.