Non chiamarlo cancro aiuta a combattere il cancro?

Non tutti i tumori sono uguali e a volte chiamiamo tumori cose che tecnicamente non lo sono, generando paure e reazioni eccessive

Un gruppo di lavoro del National Cancer Institute, l’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro degli Stati Uniti, ha pubblicato lunedì 29 luglio una serie di raccomandazioni sul Journal of the American Medical Association, consigliando di ridefinire il concetto di cancro e di eliminare la parola stessa (e i suoi sinonimi) da alcuni tipi di diagnosi, rendendole meno allarmanti per i pazienti e più chiare per i medici che li hanno in cura. Secondo gli autori della ricerca, tra i più importanti studiosi statunitensi di forme tumorali, un uso più parsimonioso e accurato della parola “cancro” consentirebbe di spaventare meno i pazienti e di ridurre le probabilità che questi si sottopongano a cure molto invasive, a volte premature e non giustificate dalla loro condizione.

Nel documento, i ricercatori consigliano di non chiamare “cancro” diversi tipi di lesioni identificate durante esami diagnostici al seno, alla prostata, alla tiroide, ai polmoni e ad altri organi. Suggeriscono di usare in sostituzione la sigla IDLE, che sta per “indolent lesions of epithelial origin” (“lesioni di origine epiteliale inattive”). Per esempio, alcune lesioni precancerose che non sono quindi ancora un cancro vero e proprio non dovrebbero essere definite con parole come “cancro” o “carcinoma”.

Il carcinoma duttale in situ è lo stadio 0 (il meno avanzato) del tumore al seno: a questo stadio il cancro non si è formato ma è rilevabile solamente come un’anomalia dei dotti lattiferi e che aumenta il rischio di sviluppare un cancro. Il consiglio dei ricercatori è di eliminare dalla definizione della patologia la parola “carcinoma” per fare chiarezza tra paziente e medici, ma anche tra medici e medici. Al New York Times, la principale autrice della ricerca, Laura J. Esserman della University of California (San Francisco), spiega che “Il carcinoma duttale in situ non è un cancro, quindi perché lo chiamiamo cancro?”.

Gli autori della ricerca dicono che la comunità scientifica dovrebbe organizzare incontri e dibattiti per studiare nuove definizioni per i tumori, più chiare e aggiornate rispetto alle conoscenze acquisite negli ultimi anni per trattarli. Il dibattito dovrebbe coinvolgere, su larga scala, patologi, chirurghi, oncologi e radiologi.

Anche se la proposta proviene da alcuni dei principali esperti di tumori negli Stati Uniti, non tutti sono d’accordo. Chi è contrario ricorda che i medici non possono dire con certezza quali cancri non si svilupperanno e quali potrebbero rivelarsi mortali per i loro pazienti: un semplice cambio di terminologia potrebbe non essere sufficiente. Nel caso del carcinoma duttale in situ, dicono, non si può dire in quali casi la patologia si trasformerà in un cancro aggressivo e in quale rimarrà invece latente o a bassa pericolosità. A oggi non ci sono strumenti sufficientemente accurati per osservare cellule che potrebbero diventare tumorali e dire con certezza come evolveranno ulteriormente.

I detrattori del cambiamento di terminologia, come Larry Norton responsabile dell’Evelyn H. Lauder Breast Center at Memorial Sloan-Kettering Cancer Center (New York, Stati Uniti), sostengono che non è possibile mettere mano a centinaia di anni di letteratura scientifica per sostituire parole e definizioni. In realtà, è già accaduto in passato che si cambiassero i nomi di alcuni tumori nei loro primissimi stadi: nel 1998 l’Organizzazione Mondiale della Sanità decise di eliminare la parola “carcinoma” da una patologia di un tratto dell’apparato urinario, chiamandola invece “neoplasia uroteliale a basso potenziale maligno”. Ci sono stati diversi altri casi in passato, ma nessuno ha mai comportato una nuova definizione su larga scala di intere categorie di malattie.

Esserman è convinta che un cambiamento dei termini consentirebbe ai pazienti di comprendere meglio quanto sia grave il loro problema, facendo capire loro che non sempre è necessario trattare radicalmente qualsiasi cosa trovata in un esame diagnostico: “Il problema per la gente comune è che sente la parola cancro e pensa che morirà se non farà qualcosa. Dovremmo tenere in serbo questa parola, “cancro”, per quelle cose che con molta probabilità potranno causare problemi”.

Nel documento si ricorda anche che a oggi i medici non hanno molti strumenti per distinguere con certezza tra tumori benigni, o che si sviluppano molto lentamente, e malattie più aggressive. Per precauzione, molti oncologi preferiscono trattare tutto allo stesso modo, con pratiche talvolta invasive anche per le lesioni precancerose. Ma anche dopo anni di terapie aggressive, spiegano i ricercatori, non c’è stata in proporzione una riduzione dei cancri invasivi, cosa che suggerisce che diagnosi e cure eccessive si verifichino ormai su larga scala.

Negli ultimi anni la ricerca ha fatto notevoli progressi per quanto riguarda le terapie contro il cancro. Grazie a nuovi farmaci, interventi chirurgici più precisi e strumenti di diagnosi più accurati molti tipi di tumori sono diventati meno letali, con un aumento significativo delle speranze di vita per i pazienti. Ai progressi raggiunti non è però corrisposto un adeguato aggiornamento dei termini, spesso molto generici, utilizzati dai medici per fare riferimento alle forme tumorali. Anche se fossero applicati i cambiamenti suggeriti dal gruppo di lavoro del National Cancer Institute, buona parte della responsabilità nella comunicazione ai pazienti rimarrebbe comunque in mano ai medici, che a prescindere da come viene chiamato un tumore, devono spiegare con parole semplici alle persone che hanno in cura le loro malattie e le opzioni che hanno davanti per affrontarle, facendo capire che cosa c’è oltre il momento drammatico in cui si sentono dire “lei ha il cancro”.