Leonardo Negri e Camilla Ottolenghi si unirono in matrimonio il 10 giugno 2013, di fronte a un dipendente dei cittadini della Repubblica Italiana. Questa storia parla di loro due, di quel matrimonio e di quella repubblica.
Si erano conosciuti una decina d’anni prima, quando erano al secondo anno di Giurisprudenza lei e al primo di Scienze politiche lui. Leonardo stava attraversando il grande atrio dell’Università Statale di Milano, inondato dalla luce polverosa che filtrava dalla vetrata sul cortile, opaca per l’età e l’incuria; era iscritto da poche settimane e stava andando a comprare i libri per i corsi del primo semestre. A pochi passi dall’ingresso della libreria c’era un banchetto autogestito, in cui una decina di studenti più grandi offriva alle matricole la possibilità di fotocopiare gratuitamente tutti i testi in programma. Leonardo, appena atterrato in Lombardia dalla Maremma con un accento ineludibile e poche centinaia di euro sulla Postepay, calcolò che avrebbe risparmiato due mesi d’affitto della sua stanza, e accettò immediatamente.
Il manuale di Diritto costituzionale che si mise a fotocopiare apparteneva a una delle ragazze al banchetto, una militante di Rifondazione Comunista. Mentre si affaccendava alla fotocopiatrice, lei si mise a spiegargli il significato delle sue sottolineature – doppie per gli articoli, singole per i commentari, una gerarchia stratificata di frecce e asterischi a segnalare l’importanza di questo o quel passaggio. Mentre discutevano furono fotografati da un cronista freelance avvertito dell’iniziativa dal collettivo studentesco della Statale.
La foto mostrava un ragazzo massiccio e sorridente come un rugbista, goffamente piegato a disincagliare la carta da una Xerox arcaica – i ricci biondi che sfioravano il piatto di plexiglas, un loden chiaramente del padre che spazzava il pavimento con un lembo sfrangiato. Accanto a lui si teneva rigida e ancora più esile per il contrasto quella che pareva una quattordicenne travestita da strega – calze a rete nere, minigonna nera, cardigan nero aperto su una maglietta bianca lacerata ad arte, ma coperta sin quasi alla vita da una liscissima chioma rosso acceso. Guardava l’obiettivo a occhi sgranati, girata di un quarto, come colta di sorpresa da un paparazzo o da un killer.
La foto uscì il giorno seguente sull’edizione locale del “Corriere della Sera”, con la didascalia Studenti contro il copyright. Con un romanticismo di cui avrebbero sorriso spesso negli anni a venire, l’incontro di Leonardo e Camilla fu quindi documentato presso la pubblica opinione. Lo sarebbe stato anche il loro divorzio.
Il 3 marzo 2014 Leonardo e Camilla Negri uscirono avvinghiati e felici da un condominio in piazzale Segrino, nella zona nord di Milano – in quella che era stata periferia e ora splendeva come “fulcro creativo”, di valore in ascesa, agghindata da un mercato a chilometri zero e una fermata della metropolitana aperta da poco. Era solo il quarto appartamento che visitavano, ma non avevano avuto dubbi: la suddivisione permetteva di sfruttare al meglio i sessantacinque metri quadri, il quinto piano senza ascensore aiutava a contenere il prezzo e la zona era quella in cui vivevano da anni, prima separatamente e poi insieme. L’avevano capito non appena erano entrati – e al primo commento ammirato di Leonardo lei gli lanciò un’occhiata intimandogli di non tradire troppo entusiasmo nella negoziazione.
Funzionò solo in parte: benché Camilla facesse di tutto per evitare che parlasse, Leonardo annuì concitatamente agli accenni dell’agente immobiliare, senza trovare altre domande da porre che un patetico: “Ed è davvero libera subito?” Forse, pensò Camilla, con quella sincerità si erano giocati uno sconto sulla commissione; ma, si disse poi, sentendo la mano del marito stretta sulla spalla a coprirla dalla pioggia sottile, forse no.
Lasciarono la banca con un prospetto delle opportunità di finanziamento e si sedettero in un bar poco distante. Un trio di jazzisti stava allestendo un palchetto in previsione del concerto della sera, e la loro discussione fu costretta a un volume variabile a seconda del rumore di fondo – prova microfoni, silenzio, giro di contrabbasso, stridore di sedie.
L’appartamento, deprezzato dalla crisi economica, costava poco più di duecentomila euro; ventimila li avrebbero messi i genitori di Camilla. Le loro entrate mensili complessive – il poco che Camilla guadagnava in un centro di assistenza legale alle vittime di violenza sessuale, e lo stipendio di ricercatore in Storia delle dottrine economiche di Leonardo – ammontavano a duemila e seicento euro. Avevano rispettivamente trentadue e trentun anni, e bevevano entrambi Campari con ghiaccio.
Il direttore della filiale in cui entrambi avevano il conto non era stato ottimista. L’anno prima, con l’ascesa al governo della Rete dei Volenterosi, era entrato in vigore il divieto di pignoramento sulla prima casa; da un giorno all’altro il tasso d’interesse offerto dalle banche ai giovani in cerca di mutuo senza garanzie era salito al 9%, per compensare l’aumento di rischio; la rata mensile su vent’anni sarebbe stata di poco superiore ai mille e seicento euro.
“Non ce li abbiamo, Leo.”
“No, non ce li abbiamo.”
Sia Leonardo che Camilla erano stati d’ac
cordo con la legge antipignoramento: era stata sin dall’inizio nel programma della Rete dei Volenterosi, per cui entrambi avevano votato. Camilla era attiva nel movimento da quando era stato fondato, credendo nella democrazia partecipativa molto più di quanto avesse mai creduto agli slogan che urlava al liceo e all’università; Leonardo, senza mai impegnarsi in prima persona (in quella come in molte altre cose, avrebbe pensato lei a volte) era entrato di riflesso nell’orbita dell’RdV.
A ogni modo, l’effetto del provvedimento sul costo della prima casa non era stato così drastico: i mutui erano sì più cari, ma avevano fatto diminuire le compravendite, provocando un abbassamento del prezzo degli immobili. Lo avevano ammesso anche “Corriere” e “Repubblica”, ostili alla Rete dei Volenterosi sin dall’inizio: le loro previsioni negative erano state smentite dai fatti. L’aumento dei tassi e l’abbassamento dei prezzi si erano controbilanciati, annullandosi, così che i costi degli immobili erano rimasti invariati – con la differenza che, una volta acquistata la prima casa, adesso c’era la certezza che non sarebbe stata minacciata dai capricci di un capoufficio o dalle bizze della finanza internazionale. Una legge simile era già stata approvata in Francia e in Polonia, ed era in discussione in Germania. Era stata una grande vittoria della RdV – di cui avevano gioito anche Leonardo e Camilla. Comunque, mille e seicento euro erano troppi.
Ripeterono per l’ennesima volta il conto di ciò che potevano permettersi. Leasing per l’auto, costo della vita nella città più cara d’Italia, un aiuto per integrare la pensione di reversibilità della madre di Leonardo: ne rimanevano mille per il mutuo. Con un breve calcolo (a cui lui, economista, era più abituato) giunsero alla conclusione di potersi permettere al massimo una casa da centoventimila euro, pagandola in vent’anni. Questo significava un monolocale – ma la prospettiva dei figli era, agli occhi di entrambi, molto vicina; oppure significava l’hinterland. Ma durante gli studi Camilla aveva sputato sangue in un pub (non solo metaforicamente: una volta un cliente le aveva lanciato un boccale addosso, colpendola sul viso) per tirarsi fuori il prima possibile dalla Brianza provinciale e leghista; e a ogni modo il trasferimento avrebbe richiesto abbonamenti dei treni, o una seconda macchina, o più benzina: quindi altri conti, altri tagli, altri problemi.
“Piuttosto andiamo a vivere in un box auto, ma io in Brianza non ci torno,” aveva posto come condizione Camilla mesi prima, quando il marito aveva vinto il concorso in università.
“In un box auto non ci vivo io,” era stata la condizione di Leonardo.
Mentre il secondo Campari addolciva, accelerava il crollo dell’entusiasmo di poche ore prima, Leonardo e Camilla ripensarono in silenzio a quelle condizioni.
Fu allora che Leonardo ebbe un’idea. Compose il numero della banca senza neppure spiegare a Camilla cosa stesse facendo; si fece passare il direttore, ringraziandolo mentalmente per essere ancora in ufficio alle cinque e cinquanta, e gli chiese a quanto ammontasse il tasso d’interesse su un mutuo per acquistare una seconda casa.
La situazione, in quelle circostanze, era molto diversa: una seconda casa, naturalmente, poteva essere pignorata, e quindi rappresentava per la banca un’operazione meno rischiosa. Sorridendo in tralice alla moglie, Leonardo cancellò il 9 dal prospetto che avevano di fronte e annotò: 3,5%.