Che cos’è la “guerra delle valute”

Dopo il G20 di Mosca sembra che non ne scoppierà una nuova: perché dovrebbe fare paura e perché non tutti sono d'accordo che sia una cosa cattiva

Ieri i ministri delle finanze dei paesi membri del G20, riuniti a Mosca, hanno emesso un comunicato in cui affermano di non volere abbassare il valore delle loro monete per ottenere vantaggi competitivi. I partecipanti hanno anche ribadito che l’unico obbiettivo della loro politica monetaria è la stabilità dei prezzi e la crescita economica. Secondo il Financial Times il comunicato aveva un «linguaggio duro». Il titolo più diffuso sui giornali per spiegare il comunicato è stato: «Evitata la guerra delle valute». Ma di cosa si tratta e cosa c’entra l’Europa?

Tutta la faccenda è cominciata in Giappone, con la rielezione di Shinzo Abe alla carica di primo ministro. Nel corso della campagna elettorale, Abe aveva promesso che avrebbe spinto la Banca Centrale del Giappone a fare quello che, secondo lui, hanno già fatto la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea: stampare molta moneta. Per fare questo ha promesso che avrebbe fissato un obbiettivo di inflazione annua tra il 2 e il 3%. Visto che il mandato del presidente della BoJ scadrà ad aprile e Abe dovrà nominare il successore, tutti i principali analisti erano concordi che avrebbe portato a termine il suo obbiettivo.

Un’inflazione al 2% non sembra molto alta a noi europei: a dicembre, ad esempio, l’inflazione media in Europa era circa al 2,2%, in Italia a dicembre era il 2,58%. Ma la scelta che Abe aveva promesso – e a cui sembrerebbe aver rinunciato dopo il comunicato congiunto del G20 di cui anche il Giappone fa parte – aveva due particolarità. La prima: era un’inflazione programmata dal governo e non lasciata libera di variare secondo le regole del mercato e, semmai, corretta da interventi presi in autonomia dalla Banca Centrale (da circa trent’anni le banche centrali di tutti i paesi sviluppati sono, o dovrebbero essere, autonome dai governi).

La seconda: il Giappone soffre ormai dagli anni ’90 di una sistematica deflazione, cioè quel fenomeno per cui il denaro aumenta di valore permettendo nel tempo di comprare più beni e servizi con la stessa quantità di denaro. A dicembre 2012, ad esempio, l’inflazione in Giappone era a -0,1%. Uno dei danni della deflazione è che rende la moneta del paese sempre più forte e quindi le esportazioni più costose.

Può sembrare poco intuitivo, ma la deflazione ha effetti potenzialmente distruttivi anche sui consumi interni di un paese. Ma pensandoci meglio: perché dovrei comprare qualcosa – un frigorifero, un televisore o un’automobile – se so che in futuro i miei soldi aumenteranno di valore? Meglio aspettare. La conseguenza, si comprende subito, è che i consumi sono pesantemente contratti, e il Giappone è in questa situazione da molti anni.

Stampare moneta, fissando un obbiettivo di inflazione alto – per il Giappone – come il 3%, significa, in altre parole, stampare più denaro e quindi – per la legge della domanda e dell’offerta – diminuire il valore della moneta. Con uno yen che cala di valore, quindi, le esportazioni giapponesi conquisterebbero un vantaggio, rispetto a quelle di altri paesi con monete forti (come Europa e Stati Uniti).

Il nemico dei giapponesi in questa “guerra”, secondo la maggior parte dei commentatori, sarebbe dovuto essere l’Unione Europea. In altre parole, il timore era che alla decisione giapponese seguisse una “rappresaglia” europea. L’euro, infatti, in questi ultimi mesi è cresciuto molto di valore, sostenuto dal fatto che la percezione di stabilità della zona euro è tornata ad attirare capitali. Mario Draghi, governatore della BCE, ad inizio febbraio aveva dichiarato che se la tendenza fosse rimasta, la BCE sarebbe intervenuta per abbassare il valore dell’euro. Anche François Hollande si è opposto a un’eccessiva rivalutazione dell’euro sostenendo che l’Europa dovrebbe trovare un accordo per fissare un obbiettivo nel cambio dell’euro, senza lasciarlo fluttuare al desiderio dei mercati. I timori di un intervento giapponese e di una rappresaglia europea si sono un po’ calmati dopo il comunicato di ieri.

Ma perché la “guerra della valute” dovrebbe fare paura? In breve, una situazione in cui i governi cercano di svalutare la loro moneta danneggia prima di tutto il potere di acquisto dei cittadini per quanto riguarda tutti i beni importati, mentre l’instabilità che ne conseguirebbe potrebbe portare a un declino del commercio internazionale e quindi a svantaggi per tutti i paesi coinvolti.

Un famoso precedente dove accadde più o meno questo fenomeno è la guerra delle valute degli anni ’30, cominciata in seguito alla grande crisi economica del 1929 e che aveva come principali protagonisti la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti. All’epoca i principali danni non furono causati soltanto dal fatto che i tre paesi facevano a gara a tenere basso il valore delle loro monete, ma anche dal fatto che si rispondeva alla svalutazione mettendo tariffe e altri ostacoli all’importazione dei beni degli altri paesi – una cosa che, con gli accordi internazionali di oggi, non si può più fare.

Un altro episodio molto meno devastante – anche per il motivo che abbiamo appena detto – fu quello che vide coinvolti la Cina e gli Stati Uniti tra il 2009 e il 2011 e di cui all’epoca si parlava parecchio. All’epoca la Cina era descritta da molti come il “bullo” dell’economia mondiale perché manteneva artificialmente basso il valore della sua moneta, favorendo in questo modo le sue esportazioni. Nonostante gli Stati Uniti avessero più volte affermato che la loro politica era di lasciare fluttuare il valore del dollaro secondo i movimenti del mercato, quasi tutti gli analisti sono d’accordo nel dire che i massicci interventi della banca centrale americana nel 2011 esercitarono una pressione a ribasso sul valore del dollaro, mettendo fine alla breve guerra senza grandi danni per nessuna delle parti coinvolte.

Ma su questo tema le opinioni sono numerose e diverse. Per alcuni il rischio di guerra era, ed è, ancora concreto, per altri non c’è mai stato. Altri ancora pensano che una guerra delle valute, con gli strumenti a disposizione della finanza e degli stati nel 21° secolo, potrebbe persino essere positiva per tutti. Se tutti i paesi svalutassero contemporaneamente, sostengono, allora gli effetti si annullerebbero a vicenda.  Nel contempo il mercato verrebbe invaso di nuovo denaro – un po’ come se tutte le banche centrali del mondo si fossero accordate per iniettare nuovo denaro nell’economia – e questo potrebbe aiutare la ripresa economica.