Da qualche giorno si parla molto della Monte dei Paschi di Siena (MPS), la terza banca italiana. Il caso è nato qualche giorno fa dopo un articolo che ha rivelato un nuovo buco nei bilanci della banca – in crisi oramai da diversi anni – che sarebbe stato creato dai vecchi amministratori e scoperto recentemente dai nuovi, Fabrizio Viola e Alessandro Profumo. Per il momento non si tratta di una grossa cifra: sono circa 220 milioni di euro, ma oltre a questi la banca ha aumentato di 500 milioni di euro la sua richiesta dei cosiddetti “Monti bond” e non si sa quale sarà il costo finale delle operazioni sospette. La vicenda ha portato alle dimissioni dell’ex presidente di MPS dall’ABI, l’organizzazione rappresentativa delle banche italiane.
Ma di MPS si parla anche oggi: Repubblica riporta in esclusiva che la magistratura starebbe indagando su una tangente da 2 miliardi pagata in occasione dell’operazione che dette l’avvio alla crisi della banca, l’acquisto di Banca Antonveneta nel 2008. Anche a causa di questa operazione, nel 2009 MPS dovette ricorrere – insieme ad altre banche – a un prestito del governo: i famosi “Tremonti bond”.
L’anno scorso la banca non è riuscita a restituire il prestito e ricorrerà quindi ai nuovi “Monti bond”, sia per rifinanziare il vecchio debito, sia per ottenere nuovi capitali. Ma probabilmente i guai della banca risalgono ancora più indietro e risiedono nella sua stessa struttura. Nessuna banca in Italia è così legata alla città che ne ospita la sede. Per decenni la funzione principale della banca è stata quella di distribuire i suoi dividendi alla città, sotto forma di investimenti, sponsorizzazioni e altre forme di supporto. Questo perché a controllarla non erano spietati banchieri, ma i politici che governavano Siena.
L’acquisizione di Banca Antonveneta
MPS è considerata una delle banche più antiche del mondo. Venne fondata nel 1472 come monte di pietà, una specie di banco dei pegni. Da diversi anni è la terza banca più grande del paese, a un certo distacco da due colossi che si contendono il primo posto: UniCredit e Banca Intesa San Paolo – create da una serie di fusioni e acquisizioni a cavallo tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. MPS era una banca particolare e a questo giro di acquisizioni e fusioni rimase sostanzialmente estranea (ci torneremo dopo). Tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008 le cose, però, cambiarono improvvisamente.
L’8 novembre 2007 MPS, presieduta da Giuseppe Mussari, annunciò la conclusione di un accordo con la banca spagnola Santander per acquistare il 55% di Banca Antoveneta (BAV) al prezzo di 9 miliardi di euro. Fu una specie di blitz, un colpo che nessuno si aspettava. BAV, una solida banca territoriale radicata nel nordest, era da circa due anni sulle prime pagine economiche dei giornali e a volte anche su quelle della cronaca giudiziaria. Era stata al centro del cosiddetto “scandalo di Bancopoli“, quello che coinvolse, tra gli altri, il banchiere Gianpiero Fiorani e l’allora governatore di Banca d’Italia, Antonio Fazio. Dopo una serie di scontri e l’intervento della magistratura, Antonveneta passò al gruppo olandese ABN Amro.
Nell’ottobre del 2007 ABN Amro era stata smembrata e acquistata da un gruppo di banche; in questa operazione, BAV sarebbe dovuta finire nelle mani della grande banca spagnola Santander a un prezzo di circa 6,6 miliardi. L’annunciò dell’acquisto di BAV da parte di MPS arrivò circa un mese dopo. L’accordo annunciato ebbe effetto nel maggio successivo, quando Antonveneta divenne parte di MPS per un prezzo finale di più di 10 miliardi di euro. Tra lo stupore di tutti i principali analisti e commentatori finanziari, il prezzo di BAV era quasi raddoppiato nello spazio di pochi mesi.
L’acquisto fu definito da molti un gesto di “megalomania”, compiuto, scrive lo Spiegel in questi giorni, «da persone che si intendevano più della storia del Palio che di mercati finanziari». Per finanziare l’acquisto, MPS si indebitò, usò quasi tutta la sua liquidità – ovvero denaro contante e soprattutto, in questo caso, in forme che possono rapidamente essere trasformate in contante – e varò un aumento di capitale, che fu sottoscritto in buona parte dal principale azionista della banca: la Fondazione Monte dei Paschi, uno dei protagonisti di questa storia, che si indebitò fino al collo. Alla fine del 2007 MPS si trovava in una situazione pericolosa: era indebitata ed impegnata nella complessa operazione di integrazione tra le due strutture, quella nuova di BAV e quella vecchia. Proprio in quei mesi fallì la banca inglese Northern Rock, l’estate successiva sarebbe scoppiata la bolla dei mutui subprime, un anno dopo sarebbe fallita Lehman Brothers.
La governance
I manager che scelsero di fare quelle operazioni – quelli che, per dirla con lo Spiegel, sapevano più di Palio che di finanza – non erano manager come tutti gli altri. Quasi tutti ritengono che i problemi di MPS comincino ancora prima del caso Antonveneta e che, anzi, i problemi MPS li abbia proprio nel DNA. La sua struttura di governance era basata, fino a poco tempo fa, su una struttura quasi omonima della banca: la Fondazione Monte dei Paschi di Siena.
Qui bisogna fare un po’ di storia. Dal 1936 ai primi Anni ’90 il sistema bancario italiano è stato sostanzialmente pubblico. C’erano tre grandi banche pubbliche – Credit, Comit e Banco di Roma – e una miriade di altri piccoli istituti bancari controllati a vari livelli dai politici locali. Il principio, introdotto nel 1936 sotto il fascismo, era che le banche dovessero avere un ruolo pubblico e che quindi fossero i politici a doverle controllare. Nel corso dei primi anni ’90 il settore bancario venne privatizzato. Le banche vennero divise a metà: da un lato veniva la banca vera e propria, che raccoglieva il risparmio e lo investiva, dall’altro la fondazione, che possedeva le azioni della banca e con i dividendi doveva investire sul territorio e perseguire l’antico ruolo delle banche.