Intorno alle 11 di mattina del 22 dicembre 1992, Martin Almada scoprì in una stazione di polizia a pochi chilometri dalla capitale del Paraguay, Asunción, le prove dell’Operazione Condor, una cospirazione internazionale per torturare e uccidere dissidenti politici nei paesi del Sudamerica. L’archivio conteneva più di cinque tonnellate di documenti in cui era descritto come, negli anni ‘70, sei dittature militari sudamericane avessero collaborato per imprigionare più di 400 mila persone e torturarne e ucciderne altre 50 mila, arrivando a colpire persino in Europa. Il nome con cui quella collezione di documenti divenne famosa in tutto il mondo fu “Archivi del Terrore”.
L’uomo che scoprì gli Archivi è vivo ancora oggi, nonostante tre anni di prigionia in Paraguay lo abbiano praticamente privato della vista. Martin Almada ha 75 anni ed è un avvocato, ex insegnante e attivista umanitario. Per molti anni, dopo la fine della dittatura nel 1989, Almada insieme a molti suoi concittadini ha cercato di far processare e condannare gli uomini della giunta militare paraguaiana. Dopo molti anni di battaglie, la scoperta degli Archivi del Terrore gli fornì le prove che gli servivano, oltre alla strana esperienza di poter rileggere la sua storia dal punto di vista dei suoi aguzzini.
Almada venne arrestato per la prima volta nel 1974, appena tornato dall’Argentina, dove aveva ottenuto un master. La tesi con cui si era laureato era uno studio sul sistema scolastico del Paraguay, un sistema, secondo Almanda, vecchio e conservatore, usato per tenere il popolo nell’ignoranza e aiutare le classi dominanti. All’epoca il suo paese era già da vent’anni sotto la dittatura militare del generale Alfredo Stroessner. Almada, già prima di andare a specializzarsi in Argentina, era noto per essere ostile al regime. Era un uomo di sinistra, molto attivo nel sindacato universitario.
Lo arrestarono appena rimise piede in Paraguay, nel novembre del 1974, e misero sua moglie, Celestina Perez, agli arresti domiciliari. Almanda venne portato davanti a un tribunale militare in cui sedevano anche ufficiali argentini, boliviani, brasiliani, cileni e uruguaiani. Lo accusarono di aver preso parte a diverse organizzazioni sovversive, gli chiesero di confessare e di cominciare a collaborare con la polizia politica. Quando Almada negò il coinvolgimento e si rifiutò di collaborare cominciarono gli interrogatori.
Almada fu sottoposto a 30 giorni di torture. Nel suo libro, Paraguay, il carcere dimenticato (si può scaricare il suo libro in inglese, e alcuni estratti in italiano, dal suo sito), racconta i metodi scientifici e creativi con cui cercarono di farlo confessare. Ogni strumento o metodo aveva un nome. Un tipo di frusta fatta di fili di metallo intrecciato era chiamata “piccolo Paraguay” e i manganelli erano “democrazia”. Gli aghi più grandi erano i “Generale Stroessner”, mentre quelli più piccoli avevano il nome del capo della polizia politica. La pratica di immergerlo in una vasca da bagno piena di acqua, urina ed escrementi era chiamata “diritti umani”, la tortura preferita per i comunisti.
Un altro sistema di tortura aveva come bersaglio sua moglie. Ogni sera gli uomini della polizia politica la chiamavano al telefono e le facevano sentire le urla e i pianti di suo marito mentre veniva torturato. Lo chiamavano “due al prezzo di uno”. Durante uno di quei giorni spedirono a casa di Celestina anche un “Generale Stroessner”, uno degli aghi più grossi, coperto di sangue. Il decimo giorno la chiamarono a mezzanotte per dirle che suo marito era morto e che avrebbe dovuto andare a prendere il corpo. Doveva essere una specie di scherzo crudele, ma andò oltre le intenzioni della polizia politica. Celestina morì per un infarto quella sera stessa.
Alla fine dei trenta giorni di tortura, Almada venne condannato con l’accusa di “terrorismo intellettuale”. Fu portato prima in una prigione comune, ma lì lo accusarono di cattiva condotta e lo trasferirono in un campo di concentramento nella foresta amazzonica. La sua cattiva condotta era stata insegnare a leggere ai suoi compagni di cella. Lo tennero imprigionato per tre anni, lo liberarono e poi lo arrestarono di nuovo, torturandolo nella Sezione Tecnica del Ministero degli Interni. Poi, nel 1978, in seguito a una mobilitazione internazionale, Almada venne finalmente liberato e cominciò a lavorare per l’UNESCO.
Per diversi anni dovette vivere in esilio, fino a quando nel 1989 la dittatura del generale Stroessner venne sostituita da un governo democratico e Almada poté tornare in Paraguay dove iniziò una serie di processi contro i suoi torturatori, la maggior parte dei quali occupavano ancora posizioni importanti nell’esercito e nella polizia. La difesa dei suoi aguzzini era semplici: negarono di aver mai conosciuto o avuto a che fare con Almada e con tutti gli altri dissidenti politici che erano stati imprigionati e torturati.
Tre anni dopo la caduta del dittatore, una donna chiamò Almada al telefono e gli rivelò dove poteva trovare le prove dei crimini commessi dal regime. Un giudice fece una formale richiesta alla polizia per avere i documenti ma gli fu risposto che non esistevano documenti che riguardavano il señor Almada. Almada ottenne un mandato e accompagnato dal giudice, il 22 dicembre, arrivò a un’anonima stazione di polizia nella periferia di Asunción. La polizia si rifiutò di consegnare la chiave dei sotterranei, così Almada e il giudice fecero forzare la porta. Ammassati nella stanza trovarono più di 700 mila documenti: le cinque tonnellate degli Archivi del Terrore.