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  • Domenica 2 settembre 2012

Una gita a Sabra e Shatila

"Macabra", racconta Paolo Giordano, che scrive del trentesimo anniversario del massacro tollerato da Israele, avvenuto mentre lui nasceva

A Palestinian woman cries while civil defense workers carry the body of one of her relatives away from the rubble of her home in the Palestinian refugee camp of Sabra, in West Beirut 19 September 1982. Hundreds of Palestinians were killed in Sabra and Shatila, the two biggest camps in Lebanon. (Photo credit should read STF/AFP/Getty Images)
A Palestinian woman cries while civil defense workers carry the body of one of her relatives away from the rubble of her home in the Palestinian refugee camp of Sabra, in West Beirut 19 September 1982. Hundreds of Palestinians were killed in Sabra and Shatila, the two biggest camps in Lebanon. (Photo credit should read STF/AFP/Getty Images)

Tra due settimane sarà il trentesimo anniversario del massacro nei campi profughi di Sabra e Shatila, in Libano, dove nel 1982 milizie cristiane libanesi uccisero un numero mai precisato (diverse centinaia) di profughi palestinesi nell’indulgenza dell’esercito israeliano che controllava i campi. Lo scrittore Paolo Giordano ne racconta dopo un viaggio in quei posti, sulla Lettura del Corriere della Sera di oggi.

Il pullman che ci porta a Sabra e Shatila è di quelli turistici: bianco, nuovo, lucidato in ogni parte — così ingombrante che al primo tentativo di svolta nelle stradine anguste del campo rimane incastrato in diagonale, bloccando il traffico nelle due direzioni. Una pessima figura. Noi passeggeri — una ventina, di nazionalità diverse e per la maggior parte di carnagione chiarissima — scendiamo in fila, imbarazzati, e abbandoniamo l’autista al suo destino, mentre una folla di abitanti innervositi gli cresce intorno. Il nostro ingresso nell’area palestinese di Beirut non è stato dei più appropriati, né dei più sobri. Certo, non l’atteggiamento che si dovrebbe adottare varcando la soglia di uno dei luoghi di più grave sofferenza al mondo. Nei giorni precedenti la visita mi domandavo quale senso avesse una gita tanto macabra, in un quartiere dove — intuivo — non avrei trovato altro che condizioni di vita esasperate e dove avrei avvertito la presenza della morte violenta aleggiare ancora greve nell’aria. Se non fosse stato qualcun altro a propormi l’esplorazione, è probabile che non l’avrei neppure considerata fra le numerose attività da svolgere in pochi giorni a Beirut. Sapevo del massacro, e mi accorgevo di quanto vicino in linea d’aria fosse accaduto rispetto al quartiere chiassoso di Hamra dove alloggiavo, ma non mi sarei mai sognato di andarne a cercare le tracce. Eppure, quando la proposta è stata avanzata, la curiosità è esplosa forte in me, figlia di quel connubio micidiale fra ripugnanza e fascino oscuro che la contemplazione della mostruosità umana sa creare. Ho scelto dalla valigia i vestiti meno appariscenti e lasciato in stanza la macchina fotografica.

(continua a leggere sul sito della Lettura)

(STF/AFP/Getty Images)