La Diaz fu una rappresaglia scientifica alla figuraccia mondiale per le prese in giro dei black bloc. Un tentativo, maldestro, di rifarsi un’immagine e una verginità giocando sporco, picchiando a freddo, sbattendo a Bolzaneto ospiti indesiderati assolutamente innocenti.
L’ex comandante del Primo reparto Mobile della Polizia di Roma, Vincenzo Canterini, ha pubblicato un libro – “Diaz“, scritto assieme a Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo e pubblicato dall’editore Imprimatur del gruppo Aliberti – in cui ricostruisce la sua versione dell’azione di polizia contro la scuola Diaz al G8 di Genova del 2001. Per il tentativo di occultare le violenze compiute contro le persone che si trovavano ospitate nella scuola, la Corte di Cassazione ha di recente confermato le condanne nei confronti di alcuni importanti dirigenti di polizia tra cui lo stesso Canterini. Nel libro Canterini ripete alcune delle cose che ha raccontato durante i processi, in particolare lasciando capire che l’azione sia stata voluta dai vertici della polizia per ritorsione sui problemi che le forze di polizia avevano avuto nel contenere le proteste del G8, e attribuendo le violenze peggiori ai molti agenti coinvolti disordinatamente nell’irruzione, scagionando con questo i suoi uomini del “Settimo nucleo” antisommossa: «È mia intenzione parlare di chi e perché ha voluto a tutti i costi la Diaz, di chi ha coperto i veri massacratori della scuola, di chi e perché ha depistato sulle responsabilità alte, chi e perché ha scientificamente gettato fango sul Settimo (…) Erano bestie vili, da rintracciare e rinchiudere in gabbia. A cui nessuno ha però dato la caccia. Dal 2001 sono libere e impunite grazie anche a chi c’era ma in effetti non c’era, a chi comandava senza comandare, a quanti si trovavano lì per caso, per volontà superiore, per depistare, per randellarne uno ed educarne cento».
Invece mi ritrovai nel più grosso casino degli ultimi cinquant’anni. Valle Giulia al confronto fu una passeggiata al centro benessere. Una massa multiforme di divise riuscì finalmente a entrare nel cortile andando in scia al Ducato. Fu un’immagine altamente scenografica. Sembrava studiata per la stampa, che infatti era già lì, prima di noi, allertata da qualche stratega della comunicazione. Sarebbero bastate un paio di tronchesi, ma vuoi mettere l’irruzione plateale e rumorosa? Un’operazione ad alto rischio, con terroristi asserragliati peggio dei fedayn palestinesi al villaggio olimpico di Monaco, avviata con arnesi da scasso e ferramenta?
Percepivo i prodromi drammatici di uno show studiato a tavolino, replicato l’indomani con la conferenza stampa organizzata dentro a un’aula della Diaz. I cronisti erano tutt’intorno a un tavolo rettangolare dov’erano esposte le armi sequestrate: mazze, picconi, sassi, caschi, coltelli, maschere antigas, magliette nere. E quelle due bottiglie di Chianti doc bevute alla salute dei Grandi del pianeta e successivamente riempite con il liquido infiammatorio tipico della guerriglia.
L’operazione era stata pensata, ideata, orchestrata e coordinata come dura risposta dello Stato che fino a quel momento s’era fatto trovare impreparato in occasione del summit mondiale. Come spiegare altrimenti la presenza trafelata nel cortile, prim’ancora di rendere noto il numero degli arrestati e delle armi sequestrate, dell’addetto alle pubbliche relazioni della polizia? Non so di chi fu l’idea di allertare anzitempo tv, radio e giornali per magnificare un intervento dalle conseguenze tutt’altro che scontate. Ma fu sbagliata. Mi fu detto – ma a me sembrava francamente una cosa fuori dalla grazia di Dio – che i ragazzi che uscivano ammaccati dalla scuola erano rimasti feriti negli scontri della mattina; insomma, si tentò di darla a bere a me e a qualcun altro facendoci credere che quello era il lazzaretto dei black bloc. Una puttanata…
Quelle migliaia di immagini girate fino a notte fonda, infatti, anziché servire a ridare lustro al Corpo oltraggiato dai black bloc, si rivelarono formidabili prove per la pubblica accusa che, nel fare il conto di chi c’era e di chi non c’era ai posti di comando, di chi incrociò l’uomo delle molotov, undici anni dopo otterrà dalla Cassazione l’annientamento dei vertici della Pubblica sicurezza realizzando in questo modo i sogni più nascosti di terroristi e mafiosi. È bastato solamente essere stati alla Diaz per essersi visti la carriera rovinata.
I miei uomini li rividi nuovamente insieme dopo l’inutile tour a tenaglia. S’erano accodati alle operazioni di sfondamento. Io ero un po’ più defilato, tanto che non riuscii ad assistere al momento dell’irruzione, cosa che spiegai anche al pm. Nel corso del processo dissi chiaro e tondo che non avevo avuto una visuale a trecentosessanta gradi, ma la magistratura si mostrava scettica. Mi guardavano tra l’indispettito e il perplesso. Non riuscivano a capacitarsi che, davvero, in quella circostanza, il comandante del Reparto mobile di Roma – che non aveva responsabilità operative ma solo di supervisione e di assistenza tecnica – potesse essersi perso qualche scena del “grande spettacolo”.
Invece, andò proprio così. Aspettai che entrassero i primi cinquanta-sessanta uomini che si occuparono di sfondare un’altra coppia di ante sbarrate e dopo, ma soltanto dopo, quando il flusso d’entrata stava ormai scemando, varcai l’entrata con indosso un casco che mi ero fatto prestare da Gian Luca, il mio autista. Ero disarmato, privo dello sfollagente e della pistola. Alcuni ragazzi del Settimo mi avevano aspettato e scortato con i loro scudi, sui quali avevo sentito infrangersi massi e bottiglioni. Un casino infernale. Gli anfibi degli agenti rimbombavano sordi inciampando sui contusi e slittando sopra vetri rotti, vestiti strappati, pozzanghere di sangue. Giuro, erano pozzanghere. Dietro la porta che dava sulla palestra notai i primi feriti, piangevano accasciati contro la parete. Urla disumane, terrificanti, sembravano provenire dall’aldilà. Vidi gente calpestata dalle scarpe dei poliziotti. Presi la via delle scale facendo lo slalom tra panche rovesciate e gli ultimi agenti che mi sorpassavano mentre salivo. Avevo deciso di fare un sopralluogo in tutti i piani, ma il proposito sarebbe rimasto tale, a causa di ciò che vidi non appena alzai il piede dall’ultimo gradino della rampa.
La mia vita andò in testacoda. Mi bloccai appena mi si presentò davanti agli occhi lo scannatoio al primo piano. Inizialmente pensai a un campo di battaglia dovuto a violente resistenze. Perché resistenze, checché se ne dica, a cominciare dalle cancellate sprangate e dagli oggetti lanciati dalla finestre, ve ne furono molte tra gli occupanti.
Gli abusi dei rappresentanti dello Stato ci furono e furono ingiustificabili. Ma alla Diaz non fu tutto bianco e nero, i manifestanti non erano tutti buoni e i poliziotti non erano tutti cattivi. I miei capisquadra, per dire, raccontarono di scontri cruenti.
Le relazioni e i referti al pronto soccorso parlavano chiaro. Molti componenti del Settimo erano stati fatti oggetto di aggressioni e lanci di oggetti non appena avevano varcato l’uscio della scuola. Rimasero feriti Marco Travascio e Gianluca Salvatori, detto il Drago. Chi aveva rotto loro una mano o un polso? Chi gli aveva spaccato il setto nasale a cazzotti? Ivo Gabriele, Fausto Rifezzo, Fabrizio Ledoti e Massimo Mancini sono stati accolti da sbarre di ferro e bastoni. Ad Alessandro Castagna è piovuta addosso una mazza da baseball. Domenico Pace, Giuseppe Vaccaro e Fabio Marra andarono invece incontro a una grandinata: di pietre. Luigi Parisi, appena mise piede nella Diaz fu preso a calci e pugni. L’agente Zaccaria l’ha raccontata così: «Nel salire le scale entravamo in colluttazione con alcuni facinorosi che ci buttavano contro sedie, tubi di ferro, pezzi di legno, colpendo, ferendo al volto l’agente Gianluca Salvatore».