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  • Mercoledì 6 giugno 2012

Le prime pagine di Fahrenheit 451

«Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse»

LOS ANGELES - APRIL 28: Writer Ray Bradbury delivers a lecture at the 12th Annual LA Times Festival of Books at Royce Hall on the UCLA campus on April 28, 2007 in Los Angeles, California. (Photo by Charley Gallay/Getty Images)
LOS ANGELES - APRIL 28: Writer Ray Bradbury delivers a lecture at the 12th Annual LA Times Festival of Books at Royce Hall on the UCLA campus on April 28, 2007 in Los Angeles, California. (Photo by Charley Gallay/Getty Images)

Ray Bradbury è morto oggi a 91 anni: è stato uno degli scrittori americani più famosi del Ventesimo secolo, conosciuto come uno dei più importanti autori di fantascienza di sempre e soprattutto per il romanzo Fahrenheit 451 (la temperatura alla quale la carta dei libri prende fuoco). Il libro venne pubblicato nel 1953 e nel 1956 in Italia: racconta un futuro  in cui tutti i libri saranno bruciati dai governi per addomesticare gli esseri umani. Racconta dunque un luogo dove tutto è il contrario dell’utopia e di come le cose dovrebbero essere, e per questo il romanzo viene considerato uno degli esempi più importanti del filone “distopico”.

(15 copertine di Fahrenheit 451)

***

Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia. Col suo elmetto simbolicamente numerato 451 sulla stolida testa, con gli occhi tutta una fiamma arancione al pensiero di quanto sarebbe accaduto la prossima volta, l’uomo premette il bottone dell’accensione, e la casa sussultò in una fiammata divorante che prese ad arroventare il cielo vespertino, poi a ingiallirlo e infine ad annerirlo. egli camminava dentro una folata di lucciole. Voleva soprattutto, come nell’antico scherzo, spingere un’altea su un bastone dentro la fornace, mentre i libri, sbatacchiando le ali di piccione, morivano sulla veranda e nel giardinetto della casa, salivano in vortici sfavillanti e svolazzavano via portati da un vento fatto nero dall’incendio.
Montag ebbe il sorriso crudele di tutti gli uomini bruciacchiati e respinti dalla fiamma.
Sapeva che quando fosse ritornato alla sede degli incendiari avrebbe potuto ammiccare a se stesso, specie di giullare negro, sporco di carbon fossile, davanti allo specchio. Poi, all’atto di coricarsi, si sarebbe sentito quel sorriso, una sorta di smorfia, ancora artigliato nei muscoli facciali, al buio. non scompariva mai, quel sogghigno, non se n’era andato mai nemmeno una volta per quanto riandasse con la memoria al passato.

Appese il nero elmetto color coleottero e si mise a lustrarlo; appesa poi la giubba antincendio, con molta cura, si abbandonò lungamente alle gioie di una doccia; poi, fischiettando, le mani in tasca, attraversò il piano superiore della casa del fuoco e cadde nel buco. All’ultimo momento, quando il disastro sembrava inevitabile, tolse le mani di tasca e interruppe la caduta afferrandosi al palo dorato. Scivolò fino a fermarsi con un suono stridulo, con i talloni a due centimetri dal pavimento di cemento del pianterreno.
Uscì quindi dalla casa del fuoco e si diresse per la strada notturna – era mezzanotte – verso la ferrovia sotterranea, dove il silenzioso convoglio ad aria compressa, scivolando come un’ombra dentro il suo budello bene oleato nelle viscere della terra, lo rigurgitò con uno sbuffo possente d’aria calda sulla scala mobile dal pavimento color crema, che saliva verso la superficie, nella zona suburbana.
Zufolando, si lasciò sollevare dalla scala mobile nell’aria pesante della notte e si spinse verso la cantonata, non pen- sando a nulla di speciale. Prima di giungere alla cantonata, tuttavia, rallentò, come se un gran vento si fosse sollevato chi sa dove, come se qualcuno lo avesse chiamato per nome.
In quelle ultimissime notti aveva avuto le sensazioni più vaghe e insolite sul marciapiede là, appena passato l’angolo, mentre alla luce delle stelle si dirigeva verso casa sua. Un istante prima di girare l’angolo, gli pareva di avvertire la presenza di qualcuno. L’aria sembrava carica di una calma particolare, quasi che qualcuno fosse stato là, in attesa, in silenzio, e solo un istante prima che egli comparisse si fosse semplicemente trasformato in ombra, per lasciarlo passare. Forse le sue narici percepivano un debole profumo, forse la pelle sul dorso delle sue mani, sulla sua faccia, sentiva la temperatura salire in quell’unico posto dove la presenza di una persona avrebbe potuto elevare l’atmo- sfera intorno di dieci gradi in un attimo. non si poteva capire. Ogni qualvolta girava la cantonata, vedeva soltanto il bianco marciapiede, deserto, ricurvo, con forse, la notte, qualcosa che svaniva rapidamente in fondo a un prato, prima che egli avesse potuto mettere a fuoco lo sguardo o dire una parola.

Ma ora, questa notte, rallentò fin quasi a fermarsi del tutto. La sua mente più segreta, tendendosi verso l’esterno per girare la cantonata in sua vece, aveva udito un lievissimo sussurro. Un respiro? O era semplicemente l’atmosfera compressa dalla presenza di qualcuno ritto in silenzio là dietro, in attesa? Girò la cantonata.
Le foglie autunnali sfioravano il selciato nel chiaro di luna così da far sembrare la ragazza che lì si muoveva come inchiodata a una pista mobile, come se lasciasse che il vento e le foglie la spingessero innanzi. La sua testa era parzialmente china per osservare le scarpe che agitavano le foglie intorno, la faccia era sottile e bianca come latte, ed era una specie di fame gentile quella che si chinava su ogni cosa con instancabile curiosità. Un’espressione, quasi, di pallida sorpresa; i neri occhi erano così intenti al mondo, che non sfuggiva loro alcuna mossa. La sua veste era bianca e sussurrava. Gli parve quasi di udire il movimento delle sue mani, mentre la ragazza camminava, e il suono infinitamente piccolo, ora, il bianco tremolare della faccia che si volgeva, quand’ella si accorse di essere vicinissima a un uomo ritto in attesa in mezzo alla strada.
Gli alberi sopra il loro capo emisero un gran suono come se stessero per sgranare la loro arida pioggia. La ragazza si fermò, sorpresa, e parve che volesse indietreggiare, ma rimase invece a fissare Montag con occhi così neri, scintillanti e vivi, che gli sembrò di aver detto qualcosa di molto bello. Ma sapeva che la propria bocca s’era mossa soltanto per dire “Buonasera” e infine, quand’ella parve come ipnotizzata dalla salamandra che egli portava sul braccio e dal disco della fenice sul petto, Montag disse:
«Naturalmente, siete la nostra nuova vicina, non è vero?»
«E voi dovreste essere…» staccò lo sguardo dai simboli della sua professione «dovreste essere l’uomo degli incendi, il pirofilo.» La voce le si spense, mentre parlava.
«Con che strano tono lo dite.»
«Vi avrei riconosciuto… anche ad occhi chiusi» disse lei, lentamente.
«Come mai? forse l’odore di cherosene? Mia moglie si lamenta sempre dell’odore che ho addosso» disse lui riden- do. «Per quanto ci si lavi, non lo si perde mai del tutto.»
«Infatti, non lo perdete mai del tutto» disse lei, come in preda a una specie di timore riverente.
Egli ebbe la sensazione che la ragazza gli camminasse in- torno come in circolo, costringendolo a fare un giro completo su se stesso, scuotendolo dolcemente, placidamente, vuotandogli le tasche, senza muoversi una sola volta su se stessa.
«Il cherosene» riprese poi, dato che il silenzio si stava prolungando troppo «è ormai per me il miglior profumo che esista al mondo.»
«Davvero? possibile che sia proprio così?»
«Oh, ma certo. Perché vi sembra una cosa tanto strana?» ella prese tempo per riflettere. «non lo so.» Si volse per guardare il marciapiede che scorreva verso le loro case.
«Non vi dispiace se torno a casa con voi? Mi chiamo Clarisse McClellan.»
«Clarisse. io sono Guy Montag. Su, andiamo. Che cosa state facendo in giro così tardi la notte? Quanti anni avete?»
Camminarono nella notte dall’alito tiepido-freddo sul- la strada d’argento, e c’era in quell’aria un sentore appe- na percettibile di albicocche e di fragole, e lui, guardandosi intorno, si rese conto di come ciò fosse impossibile, con la stagione ormai tanto avanzata.
C’era soltanto la ragazza che ora gli camminava accanto, la faccia luminosa come neve al chiaro di luna, e lui si accorse che lei intanto agitava nella mente le sue domande, cercando le risposte migliori che le fosse possibile.
«Dunque» cominciò la ragazza «ho diciassette anni e sono pazza. Mio zio dice che queste due cose vanno sempre insieme. Quando qualcuno ti chiede quanti anni hai, mi ha detto, tu di’ sempre diciassette e che sei pazza. non è forse una bell’ora questa, di notte, per fare due passi? Mi piace sentire l’odore delle cose, guardare come sono fatte, e alle volte resto alzata tutta la notte, a camminare, e a vedere il sole che si leva.»

Pubblicato per gentile concessione di Arnoldo Mondadori Editore © Ray Bradbury 1953
Titolo originale dell’opera: Fahrenheit 451I edizione Oscar Mondadori 1966 – 8 edizioni Oscar Fantascienza
I edizione Oscar classici moderni marzo 1989
Anno 2011 – Ristampa 38 39 40 41 42


Nella foto: Ray Bradbury, il 28 aprile 2007,
Los Angeles, California (Charley Gallay/Getty Images)