Islamismo per il pubblico

Christopher Hitchens raccontò com'era andata quando aveva cercato, a Mantova, di polemizzare con lo studioso islamista Tariq Ramadan

di Christopher Hitchens

(SIA KAMBOU/AFP/Getty Images)
(SIA KAMBOU/AFP/Getty Images)

Nel 2007 Christopher Hitchens, giornalista e scrittore famosissimo anche per le sue polemiche contro le religioni e i loro integralismi, fu ospite del Festival delle Letterature di Mantova e ne approfittò per cercare di contestare le tesi di Tariq Ramadan, studioso svizzero e teorico di un islamismo ambiguamente tra integralismo e modernizzazione, molto controverso e criticato per una sua pretesa indulgenza nei confronti del fanatismo violento. Hitchens è morto il 16 dicembre 2011.

Un festival lette­rario nell’antica capitale della Lombar­dia, Mantova, è una buona occasione per rie­saminare la questione se esista o meno la cosiddetta «civil­tà occidentale» e se valga la pena difenderla. È qui che è nato Virgilio, ed è qui che possono essere ammirati gli affreschi di Andrea Mantegna, dipinti per i Gonzaga, signori della città. Ma il grande saccheggio della città, che lasciò come quasi unico tesoro sopravvissuto le opere di Mantegna, fu condotto da un imperatore cristiano. E fu qui che, nel 1459, Papa Pio II tenne una “Dieta” per proclamare una nuova crociata, questa volta contro i turchi.

Ero venuto a Mantova per difen­dere l’ateismo e la laicità in gene­re, ma anche per avere un dibattito con Tariq Ramadan, professore islamista che vive a Ginevra e che negli ultimi anni ha fatto parlare di sé come uno degli «interpreti» più scaltri e sottili del fondamentali­smo musulmano nei confronti del­l’Occidente. Aveva rifiutato il nostro confronto previsto inizialmente ma niente mi impediva di andare al suo incontro e di tentare di ottenere una discussione dal­la platea.

La scrittrice francese Caroline Fourest ha compiuto un esteso studio delle ap­parizioni contraddittorie di Rama­dan in Europa e nel mondo musul­mano, e ha concluso che Ramadan si esprime con una lingua biforcuta, per dare volutamente impressioni diverse a seconda degli interlocu­tori. L’ho ascoltato e non cre­do che il problema sia quello. Tariq Ramadan padroneggia il gergo po­stmoderno e sociologi­co (lo dimostra l’uso ripetitivo di termini come “spazio” e “discorso” per definire l’area del possibile di­battito), e se la cava molto bene con gli eufemismi.
E quidi alla televisione egiziana dice che la distruzione dello Stato di Israele per il momen­to «non è possibile», mentre a Man­tova definisce l’idea di lapidare le adultere come «di difficile attuazio­ne». È un po’ meno di una condanna completa, ma Ra­madan si affretta ad ag­giungere che una con­danna netta e totale di queste cose diminuirebbe là sua «credibilità» agli occhi di un pubblico musulmano, che egli si propone invece, così dice, di moderniz­zare con l’astuzia.
Anche le sue scelte politiche quotidiane mostrano la stessa intenzione equivoca. I contributi versati ad Hamas (donazioni che gli hanno reso difficile ottenere un visto per insegnare all’università di Notre Dame, negli Stati Uniti, incarico da cui alla fine si è dimesso) erano picco­li doni destinati all’ala «umanita­ria» di Hamas. Non è arrivato ad affermare che non esistono prove del coinvolgimento di Osama Bin Laden negli attentati dell’11 settem­bre, però ha messo in guardia dall’emettere giudizi affrettati. Ramadan critica spesso i regimi che applicano la sharia, come quello dell’Arabia Saudita, in particolare per la loro corruzione, ma queste critiche sembrano più il sintomo di una condivisa adesione islamista, anziché una presa di distanza.

A Mantova ha trattato la que­stione della doppia appartenenza, da una parte all’Islam, dal­l’altra al rispetto delle leggi dei go­verni democratici laici nei quali gli immigrati islamici vivono. Ra­madan ha dirottato la questione al Sudafrica dove, ha detto, sotto il sistema dell’apartheid il do­vere morale era di non rispettare la leg­ge. Dopo aver ascoltato questo e molto altro, mi sono alzato per fare delle domande. Non era forse vero che la dirigenza musul­mana in Sudafrica aveva in realtà appoggiato l’apartheid? E Rama­dan non cercava di eludere la que­stione, parlando dell’uso del velo in Francia, piuttosto che quella più grave del niqab in Gran Bretagna? Non era forse vero che in Danimarca gli imam avevano sollecitato l’inter­vento delle ambasciate straniere per chiedere la censura delle vignet­te blasfeme? E non è forse vero che lui stesso deve la sua posi­zione di mediatore culturale di fatto al fatto che suo non­no, Hassan al-Banna, era stato il fon­datore dei Fratelli Musulmani, un’organizzazione estremista di cui anche il padre è stato leader in Egitto?
Ramadan ha definito la mia ulti­ma domanda troppo «offensiva» per meritare una risposta. Sulla questione danese, ha risposto con efficacia, dicendo che gli imam in questione erano una minoranza e non meritavano il sostegno dei governi stranieri. Sul velo integrale in Gran Bretagna ha sorvolato, ha ignorato la mia richiesta di fornire prove che le donne lo indossino vo­lontariamente, e infine ha ammes­so che la leadership musulmana Deobandi in Sudafrica sia stata in re­altà un pilastro del vecchio regime. D’altra parte, ha aggiunto, alcuni musulmani si erano opposti al­l’apartheid, e quelli erano i «veri» musulmani. Su ogni argo­mento, dalla lapidazione agli attentatori suicidi fino all’antisemiti­smo, Ramadan sostiene che il pro­blema non è di per sé il «testo» del Corano e neppure l’Isiam, bensì la loro errata interpretazione. Molto comodo. Ramadan spesso si affida all’ignoranza del pubblico occidentale. Sostiene che non esiste alcun precetto dottri­nale che invochi l’uccisione di coloro che abbandonano la fede islami­ca, mentre nell’hadith, che possie­de autorità canonica, l’apostata è condannato a morte con estesa frequenza.

@Slate 2007