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  • Domenica 11 dicembre 2011

La storia dei rom a Ponticelli

L'attacco al campo rom di Torino sulla base di accuse false ha molti precedenti storici, e uno di tre anni fa in cui fecero una brutta figura tutti

di Marco Imarisio

A maggio del 2008, nel quartiere di Ponticelli a Napoli, avvenne un’aggressione popolare contro i rom a partire dalla falsa accusa – calunnia secolare – che una donna avesse tentato di “rubare” un bambino. I giornali indagarono molto poco i fatti e la fondatezza di quell’accusa, avallandola: Marco Imarisio del Corriere della Sera seguì dall’inizio tutta la vicenda e la raccontò poi in un libro, da cui sono tratte queste pagine dedicate alla successione dei fatti e alle indagini. Per dire che quello che è successo sabato a Torino non è niente di nuovo.

Ci sono luoghi comuni che fanno bene, non vorresti mai che fossero sfatati. Il grande cuore napoletano, generoso, bendisposto con i più deboli, disposto a dividere con tutti il poco che ha. Gli umili di questa città sempre pronti a solidarizzare con quelli messi come loro o peggio, perché tra diseredati occorre almeno stare insieme, tenersi. Tra i cumuli di rifiuti invece sparisce anche questa radicata illusione. Terra bruciata, impastata di cenere e carbone. È ciò che rimane, di quel luogo comune e delle baracche dei Rom di Ponticelli, in un maggio che sembra essere il mese peggiore. Maggio, il mese peggiore. Per l’inarrestabile abbruttimento. Per la sensazione diffusa che nulla sia possibile davanti a questa deriva anche morale. Una città inerte, intontita dalla sua disgrazia.

La fuga notturna di 500 persone sui carretti, su auto di fortuna, inseguite da roghi e minacce di linciaggio, è a modo suo una epifania. L’annuncio di una mutazione. Napoli ha cambiato pelle senza che nessuno se ne sia accorto. La città che più di ogni altra ha avuto e ha ancora i suoi migranti accolti nel mondo, ha perso la sua tradizione. Scrive Marco Rossi-Doria su Repubblica: “Mio nonno pronunciava la parola “pogrom” – il linciaggio di tutti per accuse, vere o presunte, di uno solo – sottovoce, con paura negli occhi. Spesso l’accusa che dava il via ai linciaggi era proprio il furto di bambini. È una vergogna di cui dobbiamo tutti rispondere che, mentre sull’episodio specifico la giustizia sta facendo il suo lavoro, venga ancora diffusa, a giustificazione delle orde organizzate per i linciaggi, l’accusa di furto di bambini a una popolazione marginalizzata di una nostra periferia povera, dove – si sa – si fa presto a dire a chi è socialmente escluso che i colpevoli sono quelli della minoranza che sta a pochi passi. È questa una storia terribile e ricorrente. L’accusa di furto di bambini è stata gettata addosso a ebrei e nomadi in Europa, alle popolazioni di origine africana o ai nativi nelle Americhe colonizzate. E’ un pericolo, un’evenienza minacciosa che sta lì, ripetuta dalle narrazioni diffuse, che si nutre degli stereotipi, che avallarano o inducono a diffondere conformismi di massa o di gruppo, confermando il già noto o più esattamente il presunto noto, facendolo apparire come qualcosa di ovvio e di scontato. Non si tratta di verità, ma di convinzioni”.

A Ponticelli è andata esattamente così. La giovane rom accusata del tentato sequestro di un bimbo è un pretesto. Forse è anche una bugia, come dicono da subito gli abitanti del quartiere che conoscono la storia della famiglia della bambina, e fanno un rapido collegamento tra causa e possibile effetto. “Succederà qualcosa” dicono. E infatti. I rom di Ponticelli vengono cacciati, campo per campo. Da donne inferocite guidate da uomini feroci.

In quei giorni sui muri di Ponticelli è affisso un manifesto vergognoso, firmato non dalla Lega Nord, ma dalla locale sezione del Partito democratico. “Via gli accampamenti Rom da Ponticelli” è il titolo. Segue una valutazione sulla “grave emergenza” rappresentata dalla presenza dei nomadi nei punti più oscuri del quartiere, sotto i cavalcavia, in campi affacciati sul trafficato nulla che porta a Casoria. L’emergenza è di tre tipi, “sanitaria, sociale, ambientale”, la prima presenta anche “rischi concreti per la salute pubblica, resi ancor più gravi dall’imminente stagione estiva”. Dopo, ma soltanto dopo, il suo estensore racconterà di avere raccolto i frutti di una lunga discussione all’interno del partito, mosso soltanto dal nobile intento di offrire ai rom “condizioni di maggiore civiltà”.

Gli effetti immediati dello sforzo collettivo si vedono la mattina del 12 maggio. All’inizio è soltanto una colonna di fumo, un segnale che nessuno collega allo sciame di motorini che attraversano sparati l’incrocio di via Argine, due ragazzi in sella a ogni scooter. L’esplosione arriva qualche attimo dopo, sono le bombole del gas custodite in una baracca avvolta dal fuoco. Le fiamme lambiscono l’ estremità dei pali della luce, il fumo diventa una nuvola nera e tossica, gonfia com’è di rifiuti e plastica che stanno bruciando. Le baracche dei rom di via Malibrand sono un enorme rogo.

La resa dei conti con gli «zingari» è definitiva, senza pietà. Il traffico che impazzisce, il suono delle sirene, i camion dei pompieri, carta annerita che volteggia nell’aria, i poliziotti di guardia all’ accampamento che si guardano in faccia, perplessi. Loro stavano davanti, quelli con il motorino sono arrivati da dietro. Allargano le braccia, succede, non è poi così grave, tanto i rom se n’erano andati nella notte. «Meglio se c’erano», si rammarica un signore in tuta nera dell’Adidas. «Quelli dovrebbero ammazzarli tutti». Parla dall’abitacolo della sua Punto, in bella evidenza sul cruscotto c’è un santino, «Santa Maria dell’Arco, proteggimi».

Il primo spettacolo, perché ce ne saranno altri, va in scena davanti alla Villa comunale, l’unica oasi verde, con annessa pista ciclabile, di questo quartiere alla periferia orientale di Napoli, dove l’orizzonte è delimitato dalle vecchie case popolari figlie della speculazione edilizia voluta da Achille Lauro. Un uomo brizzolato con un giubbotto di jeans sulle spalle è il più entusiasta. «Chi fatica onestamente può anche restare, ma per gli altri bisogna prendere precauzioni, anche con il fuoco». Il fuoco purifica, bonifica il terreno «da queste merde che non si lavano mai», aggiunge un ragazzo con occhiali a specchio, capelli impomatati, maglietta alla moda con il cuore disegnato sopra, quella prodotta da Vieri e Maldini. Siccome non c’ è democrazia e lo Stato non ci protegge, dice, «la pulizia etnica si fa necessaria» e chissà se capisce davvero il significato di quella frase.

Quando si fanno avanti le televisioni, la realtà diventa recita, si imbellisce. Il donnone con la sporta della spesa che un attimo prima batteva le mani e inveiva contro i pompieri – «lasciateli bruciare, altrimenti tornano» – assume di colpo la faccia contrita, Madonna mia che disastro, poveracci, meno male che là dentro non ci stanno le creature. Il ragazzo con gli occhialoni a specchio diventa saggio all’ improvviso: «Giusto cacciarli, ma non così». La telecamera si spegne, lui scoppia a ridere.

Sotto a un albero dall’altra parte della strada c’è un gruppo di ragazzi che osserva la scena. Guardano tutto e tutti, nessuno li guarda. Sembrano invisibili. I loro scooter sono parcheggiati sul marciapiede. Il capo è un ragazzo con una maglietta nera aderente, i capelli tagliati cortissimi ai lati della testa. Tutti i presenti sanno chi è, ne conoscono con precisione il grado e la parentela. È uno dei nipoti del cugino del «sindaco» di Ponticellii, quel Ciro Sarno che anche dal carcere continua ad essere il signore del quartiere, capo di un clan di camorra che ha fatto del radicamento nel quartiere la sua forza. Quando vede che la confusione è al massimo, fa un cenno agli altri. Si muovono, accendono i motorini.

Dieci minuti dopo, dal campo adiacente, quello di fronte ai palazzoni da dodici piani chiamati le Cinque torri, si alza un’ altra nuvola di fumo denso e spesso. L’ accampamento è delimitato da una massicciata di rifiuti e copertoni. Sono i primi a bruciare, con il fumo che avvolge le case popolari. La claque si sposta, ad appena 200 metri c’ è un nuovo incendio da applaudire. I ragazzi in motorino scompaiono. La radio di una Volante informa che ci sono fiamme anche nei due campi di via Virginia Woolf, al confine con il comune di Cercola. Sul prato bagnato ci sono un paio di rudimentali bombe incendiarie. I rom sono scappati in fretta. Nelle baracche ci sono ancora le pentole sui fornelli, gli zaini dei bambini. All’ingresso di una di queste abitazioni in lamiera e compensato, tenute insieme da una gomma spugnosa, c’è un quadro con cornice che contiene la foto ingrandita di un bimbo sorridente, vestito da Pulcinella. Florin, carnevale 2008, la festa della scuola elementare di Ponticellii. Alle 14.50 comincia a diluviare, una pioggia battente che spegne tutto. «Era meglio finire il lavoro», dice un anziano mentre si ripara sotto ad una tettoia della Villa comunale.

Mezz’ora più tardi, nel rione De Gasperi si vedono molte delle facce giovani che salivano e scendevano dai motorini. È il fortino dei Sarno, un grumo di case cinte da un vecchio muro, con una sola strada per entrare e una per uscire, con vedette che fingono di leggere il giornale su una panchina e invece sono pagate per segnalare chi va e soprattutto chi viene. Ma questa caccia all’uomo non si spiega solo con la camorra. Sarebbe persino consolante, però non è così. Sotto al cavalcavia della Napoli-Salerno ci sono gli ultimi tre campi rom ancora abitati. Dai lastroni di cemento dell’autostrada cadono fiotti di acqua marrone sulle baracche, recintate da una serie di pannelli in legno. Un gruppo di donne e ragazzi che abita nelle case più fatiscenti, quelle in via delle Madonnelle, attraversa la piazza e si fa avanti. «Venite fuori che vi ammazziamo», «Abbiamo pronti i bastoni».

La polizia si mette in mezzo, un ispettore cerca di far ragionare queste donne furenti. Siete brava gente, dice, la domenica andate in chiesa, e adesso volete buttare per strada dei poveri bambini? «Sììììì» è il coro di risposta. Dai pannelli divelti si affaccia una ragazza, il capo coperto da un foulard fradicio di pioggia. Trema, di freddo e paura. Quasi per proteggersi, tiene al seno una bambina di pochi mesi. Saluta una delle donne più esagitate, una signora in carne, che indossa un giubbino di pelo grigio. La conosce. «Stanotte partiamo. Per favore, non fateci del male». La signora ascolta in silenzio. Poi muove un passo verso la rom, e sputa. Sbaglia bersaglio, colpisce in faccia la bambina. L’ ispettore, che stava sulla traiettoria dello sputo, incenerisce con lo sguardo la donna. Tutti gli altri applaudono. «Brava, bravissima». Avanti verso il Medioevo, ognuno con il suo passo.

La cronaca di quella giornata bestiale fatica a rendere quel che è stato. I vigili del fuoco sbeffeggiati mentre cercano di spegnere i roghi. “Tanto torniamo”, li canzonano così, promettendo di ripresentarsi, sempre con le molotov, che il nostro codice penale cataloga come armi di guerra. Le donne del quartiere che ballano come invasate, inneggiendo alla vendetta. Lo sguardo di quella madre sputata, che a sera vedremo andar via scortata dai carabinieri, mentre si allontana a bordo di un Apecar stracarico di masserizie ed esseri umani. Sotto la pioggia, con i lampegginati della Polizia  a fare da scorta e ad illuminare possibili agguati sulla strada dell’esilio. Ladri di bambini, tutti. Senza perdono, senza compassione. La loro cacciata però non è stata decisa da un prefetto o da un sindaco severo, come può accadere a Milano o Verona. L’ordine di stanarli e di sgomberare, baracca per baracca, è arrivato in modo misterioso e trasversale. Da un’entità comunque autorevole, vista la solerzia che ha generato, vista la scientificità della caccia. Lo Stato ha perso il suo monopolio, è svuotato di ogni forza. Comandano gli altri. Quelli che ci tengono a mostrarsi come gli unici protettori della popolazione angariata dagli “zingari”. Per loro le ronde sono palliativi che usano al Nord. Qui, quando si decide di agire, c’è campo libero per le bombe incendiarie.

L’ipocrisia estrema di questa storia dista appena un paio di isolati dai campi incendiati dei rom. Nei commenti sdegnati dei giorni seguenti, nelle rapide retromarccie e scomuniche dei maggiorenti locali del Pd, nelle analisi meditate e ponderose sullo stato della società napoletano – una specialità dell casa – non si troverà alcuna traccia di rione De Gasperi. Eppure c’entra, in questa storia. Gli abitanti che hanno trasformato in una sorta di forca caudina la fuga notturna dei Rom, aiutati soltanto dai volontari della Caritas, sanno bene di cosa si tratta. Mostrano deferenza verso le persone che abitano in quell zona e la presidiano, la stessa che dovrebbereo esibire nei confronti dello Stato. Dovrebbe essere il contrario. Dovrebbero sapere che l’incertezza economica dalla quale scaturisce il rancore disperato che indirizzano verso “nemici” altri e ancora più poveri, dipende anche dall’esistenza del fortino di rione De Gasperi. Perché è di questo che si tratta. Un fortino non autorizzato.

Post scriptum
(Dove si procede ad una dissertazione molto pignola ma necessaria, viste le conseguenze prodotte dall’episodio del quale si tratta)

Il ratto della bambina di Ponticelli non è mai stato tale. Ne sono convinti i giornalisti che accorrono sul posto quando si diffonde la notizia del tentato sequestro. Troppe cose che non tornano. Troppe testimonianze, rigorosamente anonime, che forniscono una ricostruzione dei fatti completamente diversa da quella che si va propagando. Sono voci raccolte al banco di un negozio di alimentari o ai tavolini del bar tabacchi, e con le voci non si costruisce un’altra verità.

Passi per i giornalisti, si sa come siamo. Esercitiamo il dubbio, ogni tanto. Senza certezze non possiamo che scrivere quel che viene riferito dalle fonti ufficiali. Ma del fatto che nulla torni in questa storia è convinta anche la Polizia. Che dubita fin da subito della versione ufficiale, costruita sul racconto della madre della bambina e dei suoi familiari. Accanto a quella sugli autori degli incendi nei campi nomadi, la Digos di Napoli apre un’indagine contro ignoti per i reati di calunnia aggravata  e procurato allarme. Ad immaginare il nome e il volto degli ignoti non ci vuole poi moltissimo, le persone “assunte a sommarie informazioni” quel giorno non sono più di cinque.

È necessario dire che la Polizia va in cerca di qualcosa che non troverà. Nel suo rapporto conclusivo, consegnato all’autorità giudiziaria, continuerà ad esprimere “fortissimi dubbi” sulla “verosimiglianza” di quanto accaduto a Ponticelli. I familiari della bambina verranno “ascoltati” per un paio di mesi, nella speranza che le loro conversazioni private indichino i motivi di quella ch e agli investigatori sembra una messinscena, una “versione peggiorativa” di qualcosa che è avvenuto in quella casa. Dalle loro conversazioni non emergerà nulla di penalmente rilevante.

Il punto di partenza dell’indagine sta nei precedenti e nell’assoluta incongruenza dello svolgimento dei fatti. “Zero casi” registrati finora di rom che rapiscano bambini altrui. Una delle leggende metropolitane più diffuse non ha alcun riscontro nella realtà. Cose che si sanno, ma che a ribadirle sia l’organo incaricato di indagare sull’ultimo e più roboante caso – anche per le conseguenze che produce – fa comunque un certo effetto. “Parimenti, nessun sequestro di persona si è mai verificato all’interno di una bitazione privata, ma sempre fuori o nelle vicinanze”. Mai nell’appartamento. Anche questa osservazione ha una sua solidità. Andiamo avanti. Il bambino sequestrato è nipote di Ciro Martinelli detto “o’ cardinale”. È lui che ha fermato con la maniere forti la giovane rom, giunta ormai sul ciglio della strada. L’uomo è un personaggio molto noto nel quartiere, un punto di riferimento. Difficile anche solo immaginare che qualcuno possa rubare a casa sua.

La casa si trova in una piccola traversa di via Botteghelle. Una palazzina di tre piani, abitata completamente dalla famiglia Martinelli. I genitori della bambina, il padre e il fratello della madre della bimba. La giovane rom presunta autrice del ratto era già entrata almeno altre quattro volte in quello stabile, così sostengono le testimonianze dei vicini. “Probabilmente molte di più” chiosano gli ispettori della Digos. Lei stessa ha raccontata di esserci tornata spesso, “perché mi davano dei vestitini”. La porta di ingresso dell’appartamento è in cima ad una piccola rampa di scale. Si apre subito su un locale adibito a salone, dove si trovava la bimba. La madre ha dichiarato che si trovava nella stanza adiacente. La Polizia ha ipotizzato che sapesse della presenza della visitatrice, e fosse andata a prenderle dei vestitini da donarle.

Ipotesi della Polizia: la ragazza stava rubando qualcosa, e la donna se ne è accorta. Racconto della madre: non mi sono accorta di niente; ad un certo punto entro in salone e vedo che non c’è nessuno; la porta d’ingresso è socchiusa; la apro, e alla fine del pianerottolo vedo la Rom che si appresta a scendere le scale con in braccio la mia bimba. Il racconto sembra filare, ma per gli investigatori è inverosimile. Il pianerottolo è lungo non più di due metri. Entrare nel salone, avvicinarsi alla porta, aprirla. E’ un’operazione che richiede una trentina di secondi, soprattutto se eseguita senza fretta alcuna, come confermato dalla donna. Per farsi trovare in quel punto la sequestratrice, che aveva buone ragioni per andare di fretta, avrebbe dovuto invece camminare in modo esageratamente lento. Comunque: la donna raggiunge la rom, le strappa la bimba dalle braccia e comincia ad urlare. Gli strilli attirano il nonno, che si trova al piano di sotto. Un uomo dalla corporatura massiccia, alto e grosso. Ma quando si trova davanti la rom, su una scala stretta dove non vi sono vie di fuga, se la fa misteriosamente sfuggire. La riacciuffa in strada, dopo una fuga durata quasi 500 metri, praticamente un isolato con una “zingara” in fuga e nessuno che interviene. Il nonno picchia la rom. Un testimone dice di avergli chiesto se la giovane aveva tentato di “rubare la bambina”. “Ma quando mai”, è stata la riposta. Al momento di raccontare questa versione alla Polizia, dirà di essersi sbagliato, che aveva capito male. Così fallisce il ratto della bimba di Ponticelli. Non aveva grandi possibilità di riuscire, del resto. Una volta uscita dal palazzo, questa ragazza dai capelli e dalla carnagione scura, vestita come si vestono i rom, non molto popolari in zona come poi si vedrà, avrebbe dovuto percorrere un camminamento sempre affollato con una bimba bionda in braccio. Sarebbe dovuta passare davanti all’autolavaggio gestito dal nonno della bambina, a quell’ora pieno di persone che lavorano per lui e conoscono i suoi cari. E avrebbe dovuto proseguire per oltre un chilometro prima di raggiungere il campo nomadi più vicino.

L’indagine viene archiviata. Non ci sono prove che possano confutare la versione resa dalla madre e dal nonno della bimba. Non ci sono prove che riescano a confutare la traballante e improbabile versione dei fatti raccontata dalla madre e dal nonno della bimba. Non ci sono prove che non sia andata così, quindi è andata così. Da questo sillogismo è cominciata la stagione dell’intolleranza napoletana. Da una mezza verità, che somiglia molto ad una bugia intera.

(foto Lapresse)