«L’euro è spacciato»

Le risposte europee alla crisi non possono che portare all'uscita dall'euro delle economie più deboli, dice Nouriel Roubini

Nouriel Roubini, 52 anni, è un economista che insegna alla New York University. Ha una carriera di studi e lavorativa di rilievo internazionale, ma è diventato famoso soprattutto dopo aver previsto il crollo dei mercati immobiliari statunitensi che ha dato l’avvio alla crisi economica internazionale circa cinque anni fa.

Ieri ha pubblicato su Project Syndacate la sua analisi della crisi economica europea e una previsione per il prossimo futuro: entrambe poco ottimiste, dato che secondo Roubini i governi europei non stanno reagendo come dovrebbero, e continuando così le loro politiche porteranno inevitabilmente alla fine dell’euro.

L’analisi
Secondo Roubini, i guai dell’eurozona nascono da uno squilibrio tra le aree centrali e periferiche negli ultimi dieci anni. Paesi come Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna (i famosi PIIGS) sono stati i principali consumatori dell’area euro, spendendo più di quanto si potevano permettere e mantenendo un forte deficit di conto-corrente, una delle componenti principali della bilancia commerciale (la differenza tra esportazioni e importazioni). Al contrario, il “centro” dell’eurozona (Germania, Olanda, Austria e Francia) sono stati produttori e risparmiosi, spendendo meno delle loro possibilità e esportando più di quanto importassero.

Una moneta unica forte come l’euro, a partire dal 2002, ha favorito questo meccanismo, dato che le economie più deboli non hanno più potuto ricorrere al sistema del deprezzamento della moneta, che porta a un aumento delle esportazioni: se la lira italiana perde di valore, diventa più facile a chi ha una valuta forte comprare beni prodotti in Italia, perché il cambio è molto favorevole. La crisi economica è scoppiata quando il debito pubblico e privato nei paesi che spendevano troppo è diventato insostenibile. In Irlanda e Spagna è scoppiata la bolla immobiliare e il valore delle case è crollato improvvisamente, in altri paesi periferici i deficit commerciali e i problemi delle finanze pubbliche sono diventati difficili da gestire.

Quattro soluzioni possibili
1. La soluzione migliore per far ripartire la crescita, dice Roubini, passa per una politica monetaria più libera da parte della Banca Centrale Europea, che deve garantire prestiti illimitati ai paesi che non hanno problemi gravi di liquidità (come l’Italia e il suo enorme mercato di titoli di stato, che sostanzialmente è ancora in grado di pagare) e un forte deprezzamento dell’euro, che possa aiutare le esportazioni dei paesi periferici ma che ha effetto anche nei paesi centrali.

2. La Germania e la Banca Centrale Europea si oppongono però a questa soluzione, temendo un aumento dell’inflazione nei paesi “centrali” dell’euro. La loro ricetta per uscire dalla crisi è una “medicina amara”, dice Roubini, che ha effetto solo nei paesi periferici: il pacchetto di misure di austerità, riforme strutturali e riduzione del costo del lavoro già imposto alla Grecia e fortemente suggerito, diciamo così, anche all’Italia. La ricetta ha diversi lati negativi, dice Roubini, perché nel breve periodo porta a licenziamenti e a misure depressive come l’aumento delle tasse: la gente ha meno soldi da spendere, i consumi non decollano, e la crisi si aggrava, in un circolo vizioso da cui è difficile uscire.

3. Se la situazione continua a peggiorare, i paesi periferici potrebbero essere tentati dalla terza opzione: un parziale default e l’uscita dall’euro, una mossa che avrebbe conseguenze pesantissime a livello mondiale (i creditori dei paesi in difficoltà perderebbero un sacco di soldi) ma che darebbe la possibilità, diciamo così, di ricominciare. Con politiche monetarie più autonome e libere, i paesi usciti dall’euro potranno svalutare le loro valute nazionali e favorire la crescita e le esportazioni.

4. Per evitare le conseguenze pesanti di un abbandono dell’euro, i paesi “centrali” potrebbero alla fine scegliere la quarta opzione: continuare a “corrompere” i paesi periferici per lasciarli poco competitivi sui mercati internazionali e in una situazione di bassa crescita, come sono ora. Le obiezioni a questa quarta opzione sono principalmente politiche, dice Roubini: un meccanismo simile è possibile in uno stato nazionale, con un flusso di denaro unidirezionale che compensa perdite pesanti (come in Italia tra nord e sud o in Germania dopo l’unificazione), ma i contribuenti tedeschi hanno già mostrato di non essere disposti a farsi carico delle perdite dei PIIGS.

Dato che la quarta strada non è percorribile e la terza ha conseguenze pesanti, l’Unione Europea sembra intenzionata a continuare lungo la seconda, ma questa, dice Roubini, non fa che ritardare il disastro:

A meno che [la Germania e la BCE] non abbandonino le correzioni asimmetriche (deflazione recessiva) che concentrano tutto il peso nella periferia, in favore di un approccio più simmetrico (austerità e riforme strutturali nella periferia, insieme a una politica monetaria di stimolo a livello europeo), il lento naufragio dell’unione monetaria si accelererà mano a mano che i paesi periferici dichiarano fallimento ed escono.

foto: AP Photo/Mark Lennihan