La crisi dell’auto in Giappone dopo il terremoto

Le case automobilistiche devono fare i conti con la carenza dei componenti e la concorrenza dall'estero

Il terremoto e il conseguente tsunami nel Giappone settentrionale dello scorso 11 marzo hanno causato seri danni anche all’industria automobilistica, uno dei settori più importanti del paese. Gli stabilimenti delle società dove vengono assemblate le automobili sono stati danneggiati solo in parte, ma centinaia di piccole imprese che realizzano i componenti per costruire le auto non hanno retto alla forza del terremoto e a distanza di oltre due mesi non sono ancora riuscite a riavviare completamente la produzione, spiegano sull’Economist di questa settimana.

Se mancano i pezzi solitamente forniti dall’indotto, la case automobilistiche non possono terminare l’assemblaggio dei loro veicoli e il numero di auto prodotte si riduce sensibilmente. Toyota in questi giorni deve affrontare la mancanza totale o la scarsa disponibilità di almeno 30 diversi componenti, condizione che complica un ritorno alla normalità e ai soliti livelli di produzione. La situazione rispetto ai giorni dopo il terremoto è comunque migliorata: a metà marzo la società doveva fronteggiare la mancanza di 500 diversi componenti. Un solo pezzo mancante può comunque causare lo stop di una intera catena di montaggio.

Il lavoro di sistemazione e messa in sicurezza degli impianti continua a ritmi forsennati, ma in alcune aree del Giappone settentrionale l’alto livello di distruzione causato dal terremoto e dallo tsunami complica un ritorno alla normalità. Nissan confida di tornare ai soliti ritmi di produzione entro le prime settimane dell’autunno, mentre Toyota e Honda confidano di superare le difficoltà e tornare a pieno regime entro l’inverno.

Secondo gli analisti, anche a causa del disastro in Giappone, quest’anno General Motors potrebbe rubare a Toyota il primato di primo produttore al mondo di automobili. La concorrenza inizia a farsi sentire e le difficoltà delle case giapponesi stanno favorendo i produttori statunitensi e della Corea del Sud. Negli Stati Uniti, per esempio, le vendite di veicoli Hyunday e Kia sono aumentate rispettivamente del 40% e del 57% nell’ultimo mese rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. I produttori statunitensi hanno guadagnato il 3,2% di quote di mercato in più rispetto al mese precedente, mentre le case giapponesi hanno perso 4,5 punti percentuali.

Il terremoto in Giappone ha aggravato la crisi dell’auto nel paese. Il mercato era fermo da diversi mesi e molte case giapponesi erano in difficoltà sui mercati esteri, specialmente in Europa. Ora la mancanza dei componenti sta peggiorando le cose e obbligando molte società a rimandare il lancio dei loro nuovi modelli.

Se da un lato le case automobilistiche non giapponesi possono occupare in parte gli spazi lasciati temporaneamente vuoti dal Giappone nel mercato dell’auto, dall’altro devono fare ugualmente i conti con la minore quantità di componenti che solitamente acquistano dalle imprese giapponesi per assemblare i loro veicoli. La mancanza di pezzi ha obbligato General Motors a sospendere alcune produzioni, Chrysler potrebbe produrre fino a centomila veicoli in meno quest’anno e Ford ha sospeso la ricezione di alcuni ordini per specifici modelli. La domanda su scala globale è comunque bassa: si stima che porterà alla vendita di 70 milioni di veicoli, quando tutti i produttori messi insieme potrebbero costruirne circa 95 milioni.

In seguito agli effetti del terremoto e dello tsunami, i produttori d’auto giapponesi sembrano essere intenzionati ad accelerare i progetti per spostare parte della loro produzione all’estero. Toyota mantiene per ora l’impegno di produrre almeno il 45% dei propri veicoli direttamente in Giappone, ma i dirigenti della società non hanno escluso nuove politiche industriali per garantire la continuità della produzione facendo più affidamento sugli stabilimenti all’estero. Toyota è il produttore che ci ha rimesso maggiormente a causa del terremoto: si stima che la società abbia perso circa 1,2 miliardi di dollari.

foto di Eugene Hoshiko/AP