Emma Bonino sulla crisi dell’Europa

Emma Bonino sulla crisi dell'Europa e l'irrilevanza dell'Italia (per non parlare della Padania)

di Emma Bonino

Per un’europeista convinta i motivi per non rallegrarsi sono tanti in questo periodo. Ma dover sentire il proprio Ministro degli Interni domandarsi se “ha senso rimanere in Europa?”, che riecheggia quel “meglio divisi” pronunciato il giorno prima dal Presidente del Consiglio, solo per aver subìto un rovescio annunciato, è davvero sconcertante. Sarà stata pure una reazione dettata da confusione e rabbia ma non si può per anni essere, più che euroscettici, dei veri e propri eurofobici che chiamano l’Europa “forcolandia” e opporsi non dico al processo d’integrazione ma a qualsiasi ipotesi di maggiore coesione delle politiche europee, per poi piagnucolare perché nessuno ti da retta.

Cosa vuol dire, poi, uscire dall’Europa? Uscire dall’Euro? Dal mercato unico? Dalla politica agricola comune? Dai benefici dei fondi strutturali? Finora l’interesse nazionale ha sempre coinciso con l’interesse europeo e l’Unione è tuttora il caposaldo della presenza italiana sulla scena internazionale. Cosa vogliono i Berlusconi, i Bossi, i Maroni, i Calderoli? Uscire dall’Europa per tornare ad essere un piccolo paese autarchico, antistorico, incapace di vedere che oltre il proprio naso c’è un mondo che corre e che dell’Italia, per non parlare della Padania, può certamente fare a meno?

Se il localismo e il particolarismo sono, fin dall’inizio, elementi fondativi di questa coalizione di governo e di questo blocco politico, è innegabile che questa tendenza involutiva stia facendo scuola in Europa. I microinteressi nazionali o sub-nazionali sono ormai egemoni nel processo politico europeo, con ogni paese che fa le sue leggine per sé. Ognuno protegge il suo orticello, con l’aggravante del “io non guardo nel tuo orticello a patto che tu non guardi nel mio”, non capendo che l’interdipendenza tra Stati membri e i loro mercati è giunta al punto che i singoli paesi – i forti come i deboli, i virtuosi come i viziosi – hanno oramai perso la loro piena sovranità economica, se non politica. Nessun paese, neanche la Germania o la Francia, è in grado da solo di affrontare i passaggi chiave di quest’epoca, o di sedersi al tavolo con Russia, India, Cina o Stati Uniti. Questo può farlo solo l’Europa.

Gli effetti di questo antieuropeismo, che ha visto nel centrodestra italiano un suo avamposto, li si vedono chiaramente oggi nella debolezza assoluta della Commissione Barroso, che ormai ha rinunciato a fare il proprio mestiere riducendosi ad una sorta di segretariato del Consiglio, cioè dell’organo che riunisce i singoli governi nazionali. Sarebbe bello se ogni tanto le istituzioni europee facessero battaglie a tutela di se stesse e del proprio rafforzamento; sarebbe già un successo se ogni tanto la Commissione che, non dimentichiamolo, è pur sempre guardiana dei Trattati, facesse proposte impopolari agli occhi del Consiglio, anche a costo di farsele bocciare. Almeno si capirebbe che l’Europa vuole esistere al di là delle resistenze nazionali.

E invece no: quando la Commissione Barroso capisce che una proposta rischia di non passare in Consiglio, neanche la avanza. Per esempio, per rimanere nell’attualità, da federalista avrei preferito che la questione dell’attivazione della direttiva 55 del 2001 sui permessi temporanei per ragioni umanitarie l’avesse messa la Commissione sul tavolo del Consiglio di ieri a Lussemburgo e non atteso che lo facesse uno Stato membro, in questo caso l’Italia, lasciando il campo alle contrapposizioni tra stati. Un atteggiamento autolesionista perché la Commissione non dovrebbe mai rinunciare al suo diritto d’iniziativa: di fronte ad una opposizione, anche così forte, avrebbe lo stesso potuto fare una controproposta, tipo fissare un livello sopra al quale il fenomeno migratorio dalla Tunisia sia da ritenere di proporzioni ingestibili per un singolo Stato membro.

Continuando su questa strada, l’Europa politica non solo si ferma ma si sfascia. Questa crisi mediterranea lo ha mostrato in modo netto. L’ondata migratoria di queste settimane è la metafora di un’Europa fragile e assente. Salta il Mediterraneo, e nessuno si accorge di niente, nessuno è pronto a niente, senza dimenticare che dalla Costa d’Avorio, dove c’è una crisi violentissima e pressoché ignorata dalle nostre parti, è partito un milione di persone. Direzione? Naturalmente l’Europa.

Uno stravolgimento, questo sì epocale, che sembra avere colto tutti di sorpresa. Si sta seduti sul bordo del fiume ad aspettare che passi il cadavere, a vedere come finiscono le rivoluzioni del Nord-Africa, come se non dipendesse anche da un ruolo dell’Europa il destino di queste rivoluzioni, e di altre situazioni di cui non si è capito ancora il potenziale: penso alla Siria, allo Yemen… Tutti evidentemente troppo impegnati a frequentare e conoscere i regimi, per avere il tempo di conoscere bene i paesi e i popoli. Con L’Italia in prima fila, che ha sempre voluto fare da sola, vedi gli accordi bilaterali, anche famigerati come quello con la Libia dove abbiamo finito con delegare, in maniera sostanzialmente bipartisan, all’unico che era disponibile a massacrare chi tentava di emigrare, cioè a Gheddafi, e non recependo direttive di buon senso come quella sui rimpatri o quella sul lavoro nero. È il fallimento della nostra politica dell’immigrazione a trazione leghista, populista e demagogica.

Vien voglia di dire “chi è causa del proprio male, pianga se stesso”, come accennava stamattina il titolo dell’editoriale del Post. E la politica italiana continua a non offrire squarci di novità strutturali in grado di far pensare che quest’epoca ne stia preparando di per sé una migliore. Non rimane, a chi ha la forza e la determinazione per farlo, di riprendere in mano il progetto europeo lasciato, così poco saggiamente, cadere.