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  • Sabato 5 febbraio 2011

La Siria disinnesca le rivolte

Le manifestazioni contro il regime indette per oggi sono state un flop: in piazza non è andato nessuno

A general view shows the Sabaa Bahrat square in downtown Damacus with the Central Bank (R) in the background on February 4, 2011. AFP PHOTO/JOSEPH EID (Photo credit should read JOSEPH EID/AFP/Getty Images)
A general view shows the Sabaa Bahrat square in downtown Damacus with the Central Bank (R) in the background on February 4, 2011. AFP PHOTO/JOSEPH EID (Photo credit should read JOSEPH EID/AFP/Getty Images)

Al contrario di quanto è accaduto in diverse altre capitali del mondo arabo e del nord Africa, a cominciare da quelle di Tunisia ed Egitto, in Siria le manifestazioni antigovernative sono state un flop. Qualche giorno fa i gruppi di opposizione avevano indetto per ieri e oggi una grande manifestazione di protesta, facendo un largo uso dei social network per mobilitare persone e risorse. L’avevano chiamato “il giorno della rabbia”. Non è andata bene.

Le strade di Damasco erano piene di polizia e forze di sicurezza, specie nelle vicinanze del Parlamento, dove i manifestanti avrebbero dovuto riunirsi. Ma non è arrivato nessuno, stando a quanto racconta l’Associated Press: tanto che a un certo punto persino gli agenti di polizia hanno lasciato le strade.

Pioveva, è vero. Ma non è stato solo il cattivo tempo a tenere a casa i siriani. Associated Press ha sentito esperti dell’area e giornalisti locali. Secondo loro la prima differenza tra la Siria, l’Egitto e la Tunisia è che la prima non è un’alleata degli Stati Uniti: i suoi cittadini non la accusano di essere al soldo degli americani. Il presidente Assad ha ereditato il potere da suo padre, nel 2000, dopo trent’anni di governo autoritario. Per quanto in questi anni non abbia mai esitato a reprimere violentemente il dissenso e le libertà civili – non esiste stampa libera, usare i social network è proibito, eccetera – il suo essere antiamericano e antiisraeliano gli ha permesso di conservare una buona popolarità e consolidare il nazionalismo del paese.

Poi ci sono le intimidazioni. Gli organizzatori delle manifestazioni hanno detto a Human Rights Watch di essere stati minacciati da agenti di polizia in borghese. Ieri un importante esponente islamista è stato arrestato: negli ultimi giorni aveva chiesto maggiori libertà e diritti per i cittadini siriani. D’altra parte il regime siriano ha una lunga tradizione di repressione: nel 1982 il padre dell’attuale presidente Assad uccise migliaia di persone per sedare una rivolta fondamentalista ad Hama, nel 2004 gli scontri tra i curdi e le forze di sicurezza provocarono la morte di 25 persone.

Anche la propaganda del regime ha fatto il suo dovere. Un editoriale sul giornale dell’unico partito di governo ha scritto che le rivolte in Egitto si devono “all’indulgenza di alcuni paesi arabi nei confronti degli Stati Uniti”. Il presidente Assad ha promesso di aumentare del 17 per cento gli stipendi dei lavoratori pubblici, e in un’intervista al Wall Street Journal aveva detto che le proteste delle ultime settimane in Egitto, Tunisia e Yemen stanno accompagnando il Medio Oriente in una «nuova epoca» e che i leader dei paesi arabi devono prepararsi a essere più accomodanti rispetto alle esigenze politiche ed economiche dei propri cittadini.

Infine, sembra abbia giocato un qualche ruolo la scarsa abitudine storica della Siria alle rivolte e alle manifestazioni di piazza. Uno studente diciassettenne ha detto ad Associeted Press che “in Egitto le proteste hanno generato il caos”. Un attivista ha detto che “la Siria sarà l’ultimo paese a ribaltare il suo regime: le proteste non fanno parte della nostra cultura”. Sarà anche vero, ma sono le stesse cose che si dicevano fino a qualche tempo fa di Egitto, Tunisia e Yemen.