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  • Martedì 21 dicembre 2010

«A Roma non ci sarò»

Lo studente che aveva raccontato sul Post gli scontri di Roma racconta "i giovani" secondo lui

di Enrico Rama

Non so cosa accadrà esattamente domani.
Non potrò esserci stavolta. Perché lavoro.
Niente Roma. Niente Padova. Che è la città in cui studio.
Dove lavoro io siamo in molti giovani. Un numero considerevole. D’estate aumentano, com’è giusto.
Lavoro a Gardaland.
Mi sono pagato gli studi grazie a Prezzemolo.
E con pagato gli studi intendo pagati. Tutti. Dall’appartamento ai libri, dagli spritz alle tasse universitarie. Tutto.
I contratti sono ovviamente stagionali. Ma nessuno se ne lamenta, giustamente.
Tutti gli studenti che vengono a lavorare d’estate (ma anche durante tutto il periodo dell’anno) gli va anche bene non avercelo indeterminato il contratto.
E lì insomma siamo un po’.
Non tutti son lì per pagarsi gli studi.
Ma tutti lo considerano un posto di passaggio.
«Io l’anno prossimo non ci torno», «sto cercando da un’altra parte», «sì, io son qua perché non ho trovato molto altro ma ho in ballo una serie di progetti che…».
Ecco, d’estate girando nel parco durante la pausa, li vedi questi giovani.
Ai baracchini, alle giostre, a vender panini, ad intrattenere “i gentili ospiti”.
E un po’ un’idea te la fai.
“È un mondo difficile: vita intensa, felicità a momenti e futuro incerto”.
Per molti, soprattutto per quelli che studiano, quello (Gardaland) è una specie di limbo.
La fanno facile quelli che dicono “i giovani d’oggi non vogliono più far certi lavori, ai miei tempi si prendeva quello che c’era e si ringraziava il Signore, per il cibo in tavola”.
Chi s’iscrive all’Università lo fa credendo che alla fine del percorso lo trovi un lavoro che ti piace o perlomeno nell’area di interesse che s’è scelto.
Se mi iscrivo ad Ingegneria Informatica, vorrei lavorare in una azienda informatica, mica passare la vita a portar pizze.
Solo che già lo sai, già lo sanno tutti quelli che sono lì, che ti sei iscritto e le possibilità non sono così alte, le probabilità non molte. Un po’ un terno al Lotto. Pochi vincono, le tue probabilità son basse ma se non compri il biglietto sta sicuro che non vinci nulla.
E allora li vedi al bar, tra una birra, sigarette e risate, a far passare il tempo.
E le persone che vedi son di due tipi.
Quelli come muli: lavorano, studiano, si laureano tutto in tempo, tutto in perfetto orario e sincrono.
Son quelli che dicono: “vabbè si vedrà, intanto finisco tutto il prima possibile che chi primo arriva meglio alloggia”.
E si smazzano, e un posto, un risultato se lo meritano. Arrivati alla fine non solo se lo aspettano, ma lo pretendono. A questi si dovrebbe parlare di merito, che magari si vedono soffiare un posto da chi è raccomandato.
Vai alla loro laurea e alla domanda «ed ora cosa farai?» si fan le solite battute, ci si ride sopra.
«andrò a vender il culo», «eh, ma ora come ora è un mercato inflazionato», «pensavo di fare il taccheggiatore professionista», «metterò la spesa nelle borse», «spaccio, che lì ce n’è sempre bisogno» e via discorrendo tra un dottore dottore dottore dal buso del cul! e una sorsata di birra.
Arrivano prima, è vero ma anche arrivare prima non è abbastanza, spesso.
Poi ci sono quelli che invece rimandano. Cercando di lasciare che quel periodo di studi, lavoro e cameretta-a-ventiquattr’anni duri il più possibile.
Perché il futuro è incerto, e fa un po’ paura. Una sorta di “Better the Devil you know than the Devil you don’t”.
Insomma una vita d’attesa. Un limbo.

Il sentimento più palpabile, in ogni caso, è la confusione da schiaffo del soldato.
Qualcuno t’ha colpito ma non sai chi. Ognuno contraddice quell’altro. È vero questo, no è vero quello, mi lasci parlare che io l’ho lasciata parlare, è inammissibile, bisogna indignarsi, condanniamo la violenza, bisogna pensare ai giovani.
C’è chi se ne frega, perché tanto son tutti ladri, dovrebbero mettere le bombe a Montecitorio, andassero a casa.
C’è chi sceglie una posizione e quella è. Si rifugia nel gruppo, perché l’ideologia è sempre accogliente per chi fa fatica a capire, per chi è confuso.
C’è chi cerca di interpretare senza cadere in vecchie categorie che nulla hanno ormai a che fare con il 2011, o in facili slogan.
Ma anche lì si scelgono posizioni più per necessità psicologica che altro.
E nessuno ti convince tra i vari ospiti dei vari Talk Show. E più passa il tempo e meno ti convincono. E meno ti fidi.

Poi succedono le grandi manifestazioni di questi giorni che sono fatte da quelli che hanno aderito ad una precisa ideologia e quelli che hanno cercato di interpretare, uniti non tanto per una soluzione ma per far capire che il problema c’è.
Siamo tutti uniti sul problema, che c’è.
Tutti lo sentiamo il problema.
E nessuno ascolta.
Questo è il punto.
Nessuno. E non credo che nessuno mai potrà ascoltare. Il perché è una questione prettamente anagrafica.
Perché succede quel che è successo e si tira fuori il 77.
La metà di noi manco sa quello che è successo nel ’77, o lo conosce in malo modo.
Gli altri l’hanno studiato, e quindi è già Storia. Storicizzato. Come tentare di far leggere un Vinile al lettore Blu-Ray.
Si tira fuori il 7 Aprile solo per avere dei bei titoloni sulle prime pagine dei quotidiani-che-s’indignano.
E tu allora te lo vai a cercare su Wikipedia il 7 aprile che: boh, chi lo sapeva?
E altri che dicono che c’è la CGIL dietro.
E sorridi come sorridi davanti a tuo nonno che armeggia il nuovo cellulare, o quando tuo padre ti chiede come si masterizza un DVD, come si scaricano i film, cosa vuol dire LOL.
Poi ci sono quelli che: il PD li ha ascoltati i giovani, è salito sui tetti.
E lì un po’ t’incazzi; perché se il PD avesse davvero ascoltato i giovani non ci sarebbe chi c’è ora a dire “che i giovani vanno ascoltati”, perché non ci sarebbe bisogno dei rottamatori, di Renzi e Civati, perché il PD i giovani (se li ha ascoltati) li ha ascoltati adesso. È salito sui tetti per vedere l’effetto che fa.
A Roma c’erano anche alcuni giovani del PD (fanno fatica a dirlo, si vergognano. Paradossalmente a fare coming out nessun problema, ma esser del PD, eh qui è più difficile) ed erano lì per protestare contro il governo ma anche contro il PD.
E poi ci sono gli sbronzi di potere che urlano “stai zitto! Stai! Muto devi stare!”.
Quelli che stanno dalla parte dei poliziotti, dei “ragazzi in divisa”, gli stessi che usano i poliziotti a difesa della democrazia, come se fossero pretoriani ad uso e consumo del despota di turno.
Come se ci fossero due parti. Come se anche i Giovani Poliziotti non avessero gli stessi problemi dei Giovani Universitari.
(Tolti quelli che calpestano gli universitari e quelli che incendiano camionette, ovviamente.)
E li si chiama alle trasmissioni televisive, ‘sti giovani, giusto per gettare cristiani in bocca ai leoni.
Come se si potesse far cambiare idea a quelli che “la pena di morte a ‘sti bastardi”, “tutti in galera”.
Come se si potesse far cambiare idea a quelli che “la vera violenza è quella di questo governo”, “finalmente una rivolta come ai miei tempi, un po’ di impegno da ‘sti bravi giovani”, “non m’aspettavo sto impegno da questa generazione”.

Ed io, insomma, mi sento come l’Africa.
Ché questo paese è come uno stato africano in guerra. Guardi il telegiornale e capisci, te lo dice anche il giornalista, così senza problemi, solo perché è l’Africa e chi se la caga l’Africa, che ci sono due eserciti: quello nazionale e quello dei ribelli ma che non sono altro che due facce della stessa medaglia, due poteri che si scontrano e in mezzo la popolazione che scappa o sopravvive o dà il culo o muore ed-ora-il-meteo.
Volete ascoltare i giovani?
Fateli governare. Dategli una scrivania, un posto.
Un posto dirigenziale in un partito. Un posto in una testata giornalistica, in un network televisivo. Dategli potere, possibilità di dimostrare qualcosa.
(Ve lo immaginate un vicesegretario dell’UDC di 24anni?)
E non venitemi a dire che: i giovani ci sono già e noi li spingiamo i giovani che hanno scioperato pure i dipendenti di MTV. Di MTV. Non di Rai Uno.
MTV è una azienda dalla parte dei giovani… che non assumono.
“Tocca a noi: le cose non vanno, seghiamoli ora”, urlavano.
E i giovani di potere nei partiti, la maggior parte, son giovani lecchini che han seguito fedelmente il leader di questa o quella corrente, messi lì per far bella figura.
Che la sedia se la son meritata a suon di caffè e sì signore, come ha ragione signore.
Come in Università.
E poi.
“Facciamo qualcosa per i giovani!” e bon, finita lì.
Quante volte l’ho sentita in questi giorni?
Non un programma, non un’idea, non un progetto. Nulla. Facciamo qualcosa per i giovani.
È come andare dal fruttivendolo chiedere un chilo di mele e questo ti guarda e urla “vuole un chilo di mele! Dobbiamo dargli questo chilo di mele!” al coltivatore e se ne torna a giocare a briscola.
Dove sono i progetti? Le idee?

Tutti stanno a parlare di un Obama italiano.
E son d’accordo.
Ma non perché così si salva il culo al PD, o alla Sinistra.
Ci vuole anche un Cameron italiano, allora.
Che Obama e Cameron non navigano certo in buone acque, questo è risaputo, ma è loro responsabilità e di chi li ha votati.
C’è una generazione nuova al potere che si assume tutti gli oneri e gli onori del caso.
Mettiamo i giovani al potere e vediamo bene che riescono a fare.
Mettiamoli in una competizione leale, e vediamo come se la cavano.

Insomma io a Roma non ci sarò.
Seguirò i TG, sentirò un paio di amici a Padova per capire come va.
E stavolta spero di sentire almeno un paio di vecchie sedie scricchiolare un po’.

foto Crazyphoto